Hystrio 2.2020:
Sezione La parola agli artisti nel dossier Il teatro ai tempi del Coronavirus, pp. 42-45.
Hystrio 1.2020:
Breve intervista a Francesco Pititto | Lenz Fondazione in dossier Fotografia di scena 2.0, p. 53.
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Recensione di Sotto lo sguardo delle mosche di Tedacà, p. 65.
Cupo dramma
tra 14mila maiali
SOTTO
LO SGUARDO DELLE MOSCHE, di Michel Marc Bouchard. Regia Simone Schinocca. Traduzione Valentina Aicardi.
Con Valentina
Aicardi, Francesca Cassottana, Elio D’Alessandro, Antonella Delli
Gatti, Andrea Fazzari, Fabio Marchisio. Musiche
originali Elio
D’Alessandro Prod.
Tedacà (TORINO) in
collaborazione con Teatro Libero
(PALERMO)
Testo
mai rappresentato in Italia del canadese Michel Marc Bouchard, la più recente
espressione dell’attenzione rispettosa e vivificante del vitalissimo ensemble
torinese per la drammaturgia contemporanea attinge stilemi e dinamiche sceniche
dalla tradizione di quello che una volta veniva chiamato teatro «di parola» o «di
prosa» per raccontare, mediante l’istituzione di netti contrasti, le complesse
vicende che hanno luogo in un’aristocratica villa di campagna isolata da tutto
e tutti, circondata da trentacinque baracche con
quattordicimila maiali. Una situazione di
partenza tra il surreale e l’incubotico, dunque: con appropriato parallelismo, sul
brulicante affannarsi fisico e soprattutto verbale delle Figure in scena
aleggia un sentore di morte che intride tutto lo spettacolo, dall’incipit (con contrasti
visivi dal sapore gotico) al dolente finale, con un’evocata tormenta che «si
trasforma in un nugolo di mosche». Simone Schinocca allestisce un preciso
dispositivo che si muove senza posa, come su un piano inclinato, fra lapidaria cupezza
e gelida ironia, naturalismo e stilizzazione: una sorta di versione riveduta e
corretta di ciò che la Storia ci ha consegnato come “dramma borghese”. Al centro stanno disavventure e tensioni di Figure non più grandiose
o eroiche, come in passato: essere oggetto e soggetto dell’opera non è più
esclusivo appannaggio di regine o imperatori. A tale ruolo, com’è noto, assurge
l’uomo comune. Sotto
lo sguardo delle mosche propone un correttivo: lo spettatore è chiamato
a rispecchiarsi in quanto vede accadere in scena e, al contempo, viene lasciato
nella più rassicurante condizione di voyeur
di un disfacimento incombente. Tra gli attori, un particolare plauso va
all’interpretazione di Andrea Fazzari: intrisa di spigoli e tensioni,
misurate sguaiatezze e astiose crudezze, esprime una ricchezza di colori e una varietà di sfumature
che rivelano grande padronanza di tempi e controtempi scenici (comici e non
solo).
Michele
Pascarella
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Recensione di Il mio amico Hitler di Teatri di Vita, p. 74.
Un tuffo nelle ombre con l’Hitler di Mishima
IL MIO AMICO HITLER, di Yukio Mishima. Regia Andrea Adriatico. Con
Antonio Anzilotti De Nitto, Francesco Baldi, Giovanni Cordì, Gianluca
Enria e con la partecipazione di Francesco
Martino, Lorenzo Pacilli, Damiano Pasi. Prod. Teatri di Vita (BOLOGNA)
Dal surreale Grande
Dittatore chapliniano alla straniata figurina di Cattelan, da A.H. di Latella a La mia
battaglia di Lagani-Germano, per arrivare al testo di Mishima riallestito
da Andrea Adriatico dopo l’originaria messa in scena di mezzo secolo fa: una pur
parziale contestualizzazione pare necessaria data la scelta, affatto scivolosa,
di confrontarsi con un emblema che
ciascuno ha introiettato e che, dunque, si riflette negli schemi cognitivi che
lo spettatore mette in campo. Detto altrimenti: inevitabilmente ciò che salta
agli occhi è il grado di prossimità o distanza (da qui l’eventuale dato di
originalità, caratteristica solitamente considerata indice di artisticità) tra
l’Hitler “che abbiamo in mente” e quello posto davanti a noi. In tal senso lo
spettacolo si apre con una sorpresa. O, forse, nell’unico modo possibile:
Hitler, semplicemente, non c’è. Evocato,
inizialmente nessuno lo interpreta, solo ogni tanto appare in video, in filmati
d’archivio originali. Come nel Don
Giovanni mozartiano la personalità del protagonista assume rilievo
assoluto, quasi eroico nel suo accanimento tratteggiandosi per contrasto, in
una specie di “ritratto indiretto”, grazie ai dialoghi degli altri personaggi
che parlano sempre di lui e della Storia che (gli) accade intorno: è un tuffo
nelle ombre, in una scena geometrica e lignea, buia e immobile che si potrebbe
forse tradurre in un radiodramma, tanto è affidato alla parola e alla voce,
ogni accadere. Il secondo dei tre atti rivela la scelta etica ed estetica di
Adriatico: il dramma diviene tragedia esteriore, le Figure diventano figurine,
bidimensionali e brulicanti, in un dispositivo che sta a metà tra il celebre
collage di Richard Hamilton che diede inizio alla pop art e una Merzbau di
schwittersiana memoria. Il trash si ricopre di un edonismo da rotocalco, tra
cibo e scacchiere, culto del corpo e ostentato vigore, e la piscina dentro e
attorno a cui i numerosi parlanti seminudi agiscono (o, più semplicemente,
stanno, scelta ulteriormente esplicitata nel terzo atto) diviene il luogo di un dire di
orrori e temi smisurati con la partecipazione e al contempo la frivolezza che
si potrebbe attagliare a qualsivoglia discorso da aperitivo. La rutilante banalità del male: Buñuel avrebbe apprezzato.
Michele
Pascarella
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Recensione di Pane e petrolio di Teatro delle Albe e Teatro delle Ariette, p. 74.
Rituali di accoglienza nel nome di Pasolini
PANE E PETROLIO, di e con Paola Berselli, Luigi Dadina,
Maurizio Ferraresi, Stefano Pasquini. Regia Stefano Pasquini. Collaborazione Laura
Gambi. Prod. Teatro delle Albe/Ravenna Teatro (RAVENNA) e Teatro delle Ariette
(BOLOGNA).
Il frutto dell’inedita collaborazione produttiva -ma
della lunghissima vicinanza umana- di Luigi Dadina, Paola Berselli e Stefano
Pasquini, fondatori rispettivamente del Teatro delle Albe e del Teatro delle
Ariette è un’esperienza teatrale commovente: esattamente in questi tre termini si può forse
condensarne il segno, la cifra peculiare. Esperienza: in Pane e petrolio
si beve e mangia (come di consueto, nelle proposte del Teatro delle Ariette
così come in molti progetti curati negli ultimi decenni da Dadina) ciò che in
scena è cucinato. Come esperti artigiani, per i quali ogni gesto è al contempo
necessario e distillato, questi dediti officianti (un attore-operaio e due
attori-contadini, con l’aggiunta della presenza lieve, fondante e ormai
stabile, per le Ariette, di Maurizio Ferraresi) danno corpo a un teatro rasico
e rituale, articolando un’esatta coreografia di pani tagliati e narrazioni
individuali, di letture pasoliniane (a lui è dedicato Pane e petrolio) e
struggenti clownerie di Berselli, attrice minuta e potente che in questa
occasione, più che mai, dà voce e carne a mille colori: contiene moltitudini.
Teatro: Pane e petrolio, luogo dello sguardo e della visione,
articola un continuo spostamento tra dimensione fattuale, finanche oggettiva, e
orizzonti visionari -ora lirici, ora onirici- che proprio nella materialità di
ciò che in scena è agito trovano slancio e radici. Commovente: sia nel senso
comune del muovere emozioni in ciascuno (una spinta in tale direzione è certo
data dall’evocazione dei genitori scomparsi e di intensi ricordi di gioventù)
sia nel senso etimologico del far «muovere
insieme» chi dice e chi ascolta: le vicende autobiografiche
raccontate travalicano la dimensione individuale per divenire patrimonio
condiviso con uomini e donne che, grazie al luogo che Pane e petrolio istituisce,
si scoprono immediatamente compagni, termine che nell’origine indica coloro con
cui si divide il pane. Un luogo che si (pro)pone come istantaneamente
accogliente: sideralmente distante da certe respingenti astruserie con le quali
troppo spesso ancor oggi la scena contemporanea ci affligge, senza alcun
ammiccamento Pane e petrolio crea un posto in cui si sta bene.
Dire grazie, almeno.
Michele Pascarella
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Recensione di Dialoghi di profughi di Chille de la balanza, p. 76.
Il Brecht da manuale
dei Chille de la balanza
DIALOGHI DI PROFUGHI, da Bertolt
Brecht. Scrittura
scenica
Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza. Con Matteo Pecorini, Rosario Terrone
e con la partecipazione di Claudio Ascoli. Musiche originali
Alessio Rinaldi. Prod. Chille de
la balanza (FIRENZE)
«Non ha importanza come tu appari, ma quello che hai visto e che
mostri»: un frammento del celebre Discorso
agli attori-operai danesi sull’arte della osservazione pare sintetizzare la
prospettiva propriamente brechtiana che guida lo spettacolo di Chille de la
balanza. Attitudine didattica, relazione con la società, effetto di
straniamento prodotto dal rapporto dialettico fra immedesimazione e ostensione
nel/del personaggio: Dialoghi di profughi
andrebbe mostrato in ogni scuola, non solo di teatro, come esempio pulsante di
un artigianato scenico rigoroso e lieto, pienamente leggibile e fortemente politico, in quanto teso a
produrre conoscenza attraverso la stimolazione nello spettatore di una
posizione critica (non solo mediante
il contenuto, come accadeva nel teatro di propaganda). Il dispositivo costruito
con visionaria sapienza da Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza vede lo
stesso fondatore di Chille de la balanza nel ruolo del drammaturgo e regista
tedesco, a dirigere con asciutti gesti, come fosse un’orchestra, le due dedite
Figure e la loro relazione con il collettaneo di testi brechtiani e con il
pubblico. Uomo-teatro dalla lunghissima esperienza, Ascoli letteralmente
modifica, con puntuali inserzioni a bordo scena, il significato linguistico di
ciò che vi accade: se per lunghi frammenti si è portati ad immedesimarsi in quello
che è dato a vedere, ogni emersione dalla penombra del regista-demiurgo
trasforma quelle parole e quei gesti in puri segni. Forme in movimento: dalla
rappresentazione alla presentazione. Un’ultima parola va spesa sulla semplicità
di questo spettacolo profondamente popolare, sulla sua piena intelligibilità: i
cambi netti di luce, la linearità delle coreografie, l’adamantina contrapposizione
delle due Figure, l’umorismo elementare. Bellissimo.
Michele
Pascarella
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Recensione libro La funzione culturale dei festival. Un
seminario, p. 104.
Italia e festival, lo stato dell'arte
a cura di Edoardo
Donatini e Gerardo Guccini
Imola (BO), Cue
Press, 2019, pagg. 124, € 24,99
Questo smilzo ma denso volume raccoglie gli
atti dell’omonimo seminario tenutosi nel settembre 2018 a Prato nell’ambito di
Contemporanea Festival. Il quell’occasione il gotha della società teatrale
del nostro Paese si incontrò per condividere proteiformi esperienze e vivaci riflessioni
sul tema in oggetto. I lavori furono strutturati articolando una serie di
dialoghi tematici tenuti da un Direttore di Festival e da un critico, seguiti da
discussioni aperte ai presenti (a numero chiuso e su invito). I temi spaziarono
dal senso del fare un Festival oggi al rapporto tra pubblico e comunità locali,
dagli obblighi istituzionali al sostegno agli artisti, dal multilinguismo alla
formazione, fino alla contestualizzazione dei Festival nel “sistema-teatro”. Affatto
significativo l’elenco dei partecipanti, le cui consolidate biografie professionali
hanno dato consistenza alle molteplici riflessioni sullo “stato dell’arte”
messe in campo: Acca, Ariotti, Canziani, D’Ippolito, Donati, Ferraresi,
Fumarola, Giovannelli, Graziani, Marino, Masi, Naccari, Nanni, Nicolai, Papa,
Provinzano, Regondi, Ricci, Sacchettini, Scaglione, Settembri, Sofia,
Sommadossi, Tafuri, Toppi e Zani, oltre ai curatori Donatini e Guccini. La
polifonia che il volume raccoglie ha orizzonte ontologicamente bifronte: si
tratta di una pubblicazione destinata esclusivamente agli addetti ai lavori e,
al contempo, ha come esplicito referente la (o, meglio, le) società entro e per
cui le proposizioni festivaliere hanno luogo. In tal senso pare appropriato
l’inquadramento preliminare, che analizza le «vicissitudini semantiche della
parola “festival”» intrecciandole al proliferare di «festival di
approfondimento culturale». Riflessioni forse utili a «ispirare cambiamenti»
come avverte Tafuri «a partire dal linguaggio».
Michele Pascarella
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Recensione libro Lo spettatore è un visionario, p. 104.
Lo spettatore al centro
di Lucia Franchi e
Luca Ricci
Spoleto (PG),
Editoria & Spettacolo, 2019, pagg. 166, € 15
«Un'avanguardia di cittadini aveva accettato di mettersi in
relazione reciproca e farsi comunità usando l'arte come occasione»: un
frammento del bellissimo racconto delle anime pro-motrici
del format Visionari può essere utile
a introdurre il progetto che, originatosi al Festival da loro inventato nel
2003 -Kilowatt a Sansepolcro- ha fecondato decine di altre realtà, in Italia et ultra. Questo appassionato e
appassionante volume ricorda certe auto-narrazioni dal sapore epico e semplice di
Marco Martinelli del quale si ritrovano, in queste pagine, oltre a un analogo
procedere intrecciando riferimenti colti ed esempi minuti, ampi orizzonti di
senso e descrizioni di fallimenti e conquiste, una medesima attitudine nel
concepire brechtianamente le
stratificate relazioni tra teatro, cultura e società. La caratteristica dei
Visionari, sia detto in estrema sintesi, è quella di affidare a gruppi di
cittadini (volontari, non operatori professionali del settore) la selezione di
una parte degli spettacoli da programmare a un dato Festival. La volontà di
«mettere gli spettatori al centro di un
pensiero sull’arte» richiede, da parte della Direzione Artistica, fiducia nelle
persone, lungimiranza e disponibilità a rinunciare almeno parzialmente al
potere che la funzione ricoperta inevitabilmente dà. Per contro, i benefici che
si possono ottenere -e che il libro ampiamente racconta- attengono alla
possibilità di inclusione dei pubblici
(plurale non casuale) in azioni culturali realmente condivise e, dunque,
massimamente vive e vivificanti. Il volume si chiude con una bibliografia
tematica aggiornata, che spazia dall’audience
development alla politica attiva, dalla creatività al marketing, dalla
pedagogia alle nuove tecnologie, fino alle scienze sociali: c’è del metodo, in
questa visione.
Michele Pascarella
Hystrio 4.2019:
Recensione di Es sagt mir nichts, das sogenannte Draußen e di Die Hamletmaschine di Maxim Gorki Theater, p. 68.
I due spettacoli presentati da Jens Hillje, Leone d’Oro alla
Carriera 2019
ES SAGT MIR NICHTS,
DAS SOGENANNTE DRAUßEN, di
Sibylle Berg. Regia Sebastian Nübling. Coreografia Tabea Martin. Con Suna
Gürler, Rahel Jankowski, Cynthia Micas. Drammatugia Katja Hagedorn.
DIE HAMLETMASCHINE, di Heiner Müller. Testi Ayham Majid Agha. Regia
Sebastian Nübling. Con Maryam Abu Khaled, Mazen Aljubbeh, Karin Daoud, Tahera
Hashemi, Kenda Hmeidan, Kinan Hmeidan, Yousef Sweid. Drammaturgia Ludwig Haugk.
Un progetto di Exile Ensemble.
Entrambi
prod. Maxim Gorki Theater (BERLINO).
La
Biennale 2019 dedicata alle Drammaturgie
(plurale fenomenologicamente necessario) ha assegnato il Leone d’Oro alla
carriera a Jens Hillje, autorevolissimo dramaturg: figura professionale in
Italia non ancora affermata il cui ruolo connettivo è stato possibile iniziare
a studiare grazie al saggio di Claudio Meldolesi e Renata M. Molinari del 2007.
Hillje,
classe 1968 e un’infanzia tra Italia e Germania, dopo il lavoro al Deutsches Theatre e allo Schaubühne con Thomas
Ostermeier e Sasha Waltz sei anni fa divenne co-direttore artistico e
responsabile dello staff di dramaturg del Gorki Theater, illuminata e luminosa agorà che a Berlino sostiene i progetti
di decine di artisti di formazione, nazionalità e cultura diverse.
In occasione del
riconoscimento veneziano, Hillje
ha presentato due spettacoli con
contenuti, stilemi e dispositivi scenici affatto proteiformi, a incarnare un’idea
(e una prassi) di lavoro tesa a suscitare pratiche di relazione attiva tra
artisti, pubblico e società, aprendo varchi e stabilendo connessioni (anche)
attraverso la parola.
Es
sagt mir nichts, das sogenannte Draußen: il titolo (traducibile
in Non mi dice nulla, il cosiddetto fuori) sintetizza il punctum
di questa proposizione, nella quale tre giovani e talentuose attrici danno
corpo, con ritmica (auto)ironia, a uno stravagante monologo interiore a più
voci (spesso in sincrono) che ingloba e attraversa in velocità una quantità di
temi pop, dall’amore alla zumba, dalla disoccupazione al sesso.
Ben altro misterico spessore connota Die
Hamletmaschine, creato nell’ambito del progetto Exile Ensemble con attori provenienti da
Siria, Palestina e Afghanistan. Lo spettacolo sovrappone (sia dal punto di
vista drammaturgico che visivo, con testi in arabo, tedesco, inglese e italiano
proiettati su velatini) il capolavoro
di Heiner Müller a espliciti riferimenti alla guerra in Siria.
Sette energici clown emergono senza posa dal buio per reiterare azioni, tra
l’espressivo e l’espressionista, in cui numeri «comici» si susseguono a scene
di distruzione, morte e disperazione, su un tappeto sonoro che intreccia voci
della folla, suoni di battaglia e atmosfere elettroniche di rarefatta attesa. La
macabra ironia che attraversa questo allestimento funziona come un taglio di Fontana: invita a guardare oltre.
Attraverso la tela e lo spettacolo: nel mondo.
Michele
Pascarella
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Recensione di Il giardino dei ciliegi di Alessandro Serra, pp. 68-69.
Il giardino
dei ciliegi di Alessandro Serra,
coreografia di fantasmi
IL GIARDINO DEI CILIEGI, di Anton Čechov. Regia Alessandro Serra. Con Arianna Aloi, Andrea
Bartolomeo, Leonardo Capuano, Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato,
Chiara Michelini, Felice Montervino, Fabio Monti, Massimiliano Poli, Valentina
Sperlì, Bruno Stori, Petra Valentini. Drammaturgia, scene, suono, luci, costumi
Alessandro Serra. Prod. Sardegna Teatro, Accademia Perduta Romagna Teatri,
Teatro Stabile del Veneto, TPE - Teatro Piemonte Europa, Printemps des
Comédiens (Montpellier), in collaborazione con Compagnia Teatropersona,
Triennale Teatro dell'Arte di Milano.
Dopo
il successo internazionale di Macbettu,
Alessandro Serra ha avuto la forza, produttiva e autoriale, di allestire uno
spettacolo altro rispetto al fortunato
precedente: fatto non scontato, data la standardizzazione spesso indispensabile
alla riconoscibilità e, dunque, alla vendibilità di qualsivoglia prodotto.
Ancora una volta artefice in prima persona di tutti gli elementi che compongono
una nozione (e una prassi) affatto ampia e inclusiva di drammaturgia e di
pratica scenica, Serra ha lavorato con un folto gruppo di dediti attori creando
una partitura lineare e fantasmatica, restituendo del capolavoro di Anton Čechov soprattutto il sottile equilibrio di elementi
diversi, finanche antitetici: farsa e tragedia, ricchezza e fallimento, individuo
e società. Serra ha accolto la sfida di rileggere uno dei capisaldi della
letteratura drammatica del Novecento (con il quale, a partire da Stanislavskij, si sono confrontati molti fra
i più grandi nomi della regia internazionale) allestendo uno spettacolo
rigoroso e rarefatto, a cui si attaglia perfettamente una nota presente in uno
dei numerosissimi quaderni di lavoro del drammaturgo russo: «Bisogna
rappresentare la vita non quale essa è e non quale dovrebbe essere, ma così
come appare nei sogni». Una scena dai colori pastello si fa luogo di una
coreografia di minime azioni quotidiane (anche amplificate: uno dei «marchi di fabbrica»
dell’autore), gesti sospesi e sussulti, nitide ombre e piccole luci, borbottii
e declamazioni, composizioni d’insieme e assoli. In un preciso alternarsi di
naturalismo e stilizzazione, con inserti sonori tra il musicale e il
rumoristico, lo spettacolo si dipana per quasi tre ore (sarebbe forse
auspicabile qualche asciugatura) dando corpo alla ben nota vicenda con grazia,
misura, sapienza. Una parola per il vecchio maggiordomo interpretato da Bruno
Stori, con mille colori e dettagli semplicemente perfetti: chapeau.
Michele
Pascarella
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Recensione di Se questo è Levi di Fanny & Alexander, p. 74.
Le molte domande di
Primo Levi, per Fanny & Alexander
SE QUESTO È LEVI. Performance
itinerante sull’opera di Primo Levi. Regia Luigi De Angelis. Drammaturgia Chiara Lagani. Con Andrea Argentieri. Prod. E/Fanny
& Alexander (RAVENNA)
In
bilico fra teatro e performance (nella celebre accezione proposta da Patrice
Pavis), Se questo è Levi pone una
quantità di ineludibili, feroci domande sulla e alla società mediante il
rigoroso e straniante racconto di accadimenti lontanissimi e, al contempo,
affatto presenti. Il progetto, diretto con attitudine maieutica da Luigi De
Angelis, è concepito come un trittico: Se
questo è un uomo, Il sistema
periodico, I sommersi e i salvati,
riprendendo titolo e temi della prima, quinta e ultima opera dell’autore. È destinato
ad abitare altrettanti spazi del vivere comune (nel nostro caso una biblioteca,
un’azienda agricola biologica e la Sala del Consiglio Comunale di Albenga): è
accadimento teso a «farsi luogo», per dirla con Michel de Certeau, per poter
dare voce e corpo alle storie, alla Storia. Utilizzando l’eterodirezione, dispositivo
che Fanny & Alexander da circa quindici anni sperimenta per interrogare la
percezione e la consistenza di ciò che è dato a vedere sulla scena, Andrea
Argentieri si fa «attraversare» da numerosi discorsi raccolti a partire da
documenti e interviste audio e video provenienti dalle teche Rai del celebre
scrittore, partigiano e chimico italiano, restituendone le tre anime mediante
un eloquio simultaneamente assertivo e puntellato di inciampi, energico e ricco
di pause sincopate. Il «super realismo» che connota Se questo è Levi, possibile grazie alla partecipe disponibilità
dell’interprete a farsi veicolo di quanto ascoltato in cuffia, come una sorta
di magnetofono trasparente e consistente, è senza posa messo in crisi da proteiformi
sfasamenti: una macchina da scrivere d’epoca posta a fianco di un laptop in
scena, nel primo episodio; un passaggio in cui il protagonista abbandona
deliberatamente l’accento torinese del «personaggio», nel secondo; e così via.
Il ruolo dello spettatore muta: inizialmente inerme testimone diviene, nel
terzo episodio, soggetto attivo, dialogante con il protagonista. La chimica e
il lavoro, in fabbrica e nel campo di detenzione, progrediscono appaiate alla
scrittura in questo commovente (in senso sia etimologico che comune) discorso, forma che l’ensemble ravennate
ha più volte indagato e praticato e che ora pare giungere esattamente a
«descrivere, con il massimo rigore e il minimo ingombro»: come farebbe Primo
Levi. Chapeau.
Michele
Pascarella
Hystrio 3.2019:
Curatela di uno Speciale dedicato a Pina Bausch, pp. 17-23, all'interno del quale -oltre a scritti di Leonetta Bentivoglio, Sanro Avanzo e Marinella Guatterini e a una piccola bibliografia- è anche pubblicato il seguente articolo:
Hystrio 2.2019:
Recensione di Penthy surla bande di Teatro i, p. 69.
La Pentesilea postdrammatica di Teatro i
PENTHY SUR LA BANDE, di Magali Mougel. Regia Renzo
Martinelli. Con Viola Graziosi. Traduzione Silvia Accardi. Revisione
drammaturgica Francesca Garolla. Luci Mattia De Pace. Strumentazione sonora
Alan Alpenfelt. Prod. Teatro i, MILANO, nell’ambito del progetto Fabulamundi.
Playwriting Europe – Beyond Borders?.
Se
per la tradizione Achille si innamora di Pentesilea dopo averla ferita a morte,
nella tragedia di Kleist l’Amazzone, preda di incontrollabile impeto erotico,
lo uccide. Da tale ribaltamento è partita
la drammaturga Magali Mougel, il cui testo è stato tradotto e revisionato
per essere messo in scena attraverso il corpo-voce di un’attrice: filtri e trasduzioni,
atti a un progressivo raffreddamento delle passioni originarie, per giungere a
un allestimento postdrammatico. Secondo Marshall McLuhan, freddi sono i medium a bassa definizione (che richiedono alta partecipazione dell’utente per completare le
informazioni non trasmesse): analogamente Martinelli affida allo spettatore (o
meglio all’ascoltatore, giacché mediante cuffie olofoniche il
dramma assume la forma di un concerto scenico di suoni e bisbigli, di passi e
oggetti che cadono, di respiri e sospiri) il compito di completare, appunto, ciò
che si sceglie di non mostrare. Postdrammatico: sia nell’accezione proposta da Lehmann
ormai venti anni or sono allorché si occupò del superamento della
forma-rappresentazione (in Penthy
sur la bande si ritrovano i principali «dispositivi postdrammatici»
individuati dal teatrologo: frammentazione, incompiutezza, discontinuità,
simultaneità, opacizzazione dei segni), sia nel senso comune di mostrare
qualcosa che avviene dopo un dramma.
La protagonista abita uno spazio circolare, perimetrato da una ringhiera e punteggiato
da alcune marionette (Kleist, ancora), evocando per via scultorea, in
sottrazione, la tragedia ormai disincarnata di un amore passato. La testa di un
manichino al centro della scena si fa sineddoche dello spettatore, il cui
sguardo (o meglio, la cui percezione uditiva) è, come in una corte
rinascimentale, al centro di ciò che è dato vedere, ascoltare, immaginare.
Michele Pascarella
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Recensione di Strange Tales di Aglaia Pappas e Violet Louise, p. 77.
Aglaia Pappas e Violet Louise disinnescano Edgar Allan Poe
STRANGE TALES, direzione, traduzione, musica, drammaturgia
visiva e sonora Violet Louise. Performer Aglaia Pappas, Violet
Louise. Design luci Sakis
Birbilis. Video Vasilis
Kountouris (Studio 19). Sound design Kostas
Bokos (Studio 19). Costume design Lilian
Xydia. Camera Blaec
Cinematography (Aris Pavlidis), Studio19 (Vasilis Kountouris). Assistente alla regia Sevastianna
Anagnostopoulou. Prod. Festival di Atene e Epidauro (GRECIA).
Prendere uno dei più
grandi scrittori statunitensi della storia (iniziatore del racconto poliziesco,
della letteratura dell'orrore e del giallo psicologico, ma anche critico
letterario, giornalista, editore e saggista) e disinnescarlo, appiattendone
scenicamente la feconda complessità mediante una ridda di confuse immagini
proiettate, di testi detti con monocorde veemenza e di brani cantati con algida
freddezza. Al centro della scena, circondata da tre postazioni fornite di un
armamentario tecnologico atto a produrre in diretta suoni e immagini, una
minimale sedia a rotelle accoglie Aglaia
Pappas, attrice greca che per 75 interminabili minuti interpreta con crescente
impeto muscolare, vocale e mimico alcuni testi di Poe, evocando
dell’intellettuale ottocentesco considerato il primo scrittore alienato
d'America (avendo dovuto lottare per buona parte della breve vita con problemi
finanziari, l'abuso di alcolici e sostanze stupefacenti e con l'incomprensione
del pubblico e della critica) unicamente -o, peggio, superficialmente- il lato
«maledetto», in una ridda di cliché
recitativi che passano dal dolorismo allo strazio, tra mal simulati spasimi di
ribellione e non credibili crisi di pianto. L’annunciata multimedialità,
teoricamente al centro della performance, si risolve in una serie di proiezioni
sul fondale, talora astratte talora figurative, articolate secondo uno sviluppo
drammaturgico incomprensibile: una rutilante sovrabbondanza di segni che trova
attimi di parziale requie unicamente nei passaggi in cui Violet Louise in un
inglese dall’accento malfermo esegue alcuni brani pop dalle ambizioni
concettuali, in un’alternanza detto-cantato che in breve risulta del tutto
prevedibile. Un rutilante tappeto di suoni sintetici evocante atmosfere misteriose,
immobili rettangoli di luce monocroma a illuminare per lunghi passaggi le due
performer e la loro altrettanto pervicace staticità rendono questa «tragedia
tutta esteriore» uno spreco di interessanti occasioni sceniche.
Michele
Pascarella
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Recensione di First Love di Marco D'Agostin, p. 79.
La lineare performance di Marco D’Agostin
FIRST LOVE, di e con Marco
D’Agostin. Suono LSKA. Consulenza scientifica Stefania Belmondo e Tommaso
Custodero. Consulenza drammaturgica Chiara Bersani. Luci Alessio
Guerra. Prod. VAN, BOLOGNA. Coproduzione Teatro Stabile di Torino – Teatro
Nazionale, Torinodanza festival e Espace Malraux – scène nationale de Chambéry
et de la Savoie, nell’ambito del progetto “Corpo Links
Cluster”, sostenuto dal Programma di Cooperazione PC INTERREG V A –
Italia-Francia (ALCOTRA 2014-2020). In collaborazione con Centro Olimpico
del Fondo di Pragelato. Progetto realizzato in residenza presso la
Lavanderia a Vapore, Centro Regionale per la Danza con il supporto
di ResiDance XL, inTeatro.
«Il performer è colui che parla e agisce a suo nome
(come artista e persona), rivolgendosi al pubblico in tale veste»: la voce perfomer del Dizionario del teatro di Patrice
Pavis pare utile a introdurre la prospettiva proposta da First Love dell’apprezzato Marco D’Agostin. Lo spettacolo si apre con
l’autore (in felpa colorata, jeans con elastico e scarpe da ginnastica) in un
vuoto spazio bianco che, avanzando da fondo scena, si presenta al pubblico con
nome e cognome per poi labiare in sincrono, muto, l’omonima hit della pop star
Adele, il cui testo è inserito in una busta argentata distribuita all’ingresso,
contenente inoltre uno sticker, una spilletta e una cartolina sul cui fronte
campeggia la dicitura «È giunto il tempo di gridare / il mio cuore la nostalgia
/ al mondo / semplicemente»: una vera e propria dichiarazione di poetica che
racchiude topos e stilemi della
performance. First Love ha per
oggetto la rievocazione della più importante gara della sciatrice Stefania
Belmondo, primo amore adolescenziale di D’Agostin (egli stesso praticante di
quello sport in giovanissima età): in un programmatico accorciamento della
distanza tra sé e ciò che si rappresenta, lo spettacolo intreccia la (radio)cronaca
della suddetta competizione, gli incoraggiamenti ricevuti durante la pratica
sciistica infantile e una precisa partitura fisica costituita di minimi
ondeggiamenti, spostamenti di peso e allungamenti, alternativamente evocando, illustrando
o astraendosi dal proprio contenuto referenziale. Un set di luci bianchissime e
un consistente tappeto sonoro paiono funzionali a raffreddare l’alta densità
emotivo-autobiografica di una proposizione che si inscrive pienamente nella
tendenza affatto contemporanea alla riduzione della quantità di significati che
si vuole veicolare, a favore della più ampia leggibilità, con molteplici significanti
univocamente tesi a tracciare un
segno: qualsiasi cosa se ne pensi, una vocazione alla semplificazione
pienamente figlia dei nostri tempi.
Michele
Pascarella
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Recensione di Gin gin (Di cosa si parla quando si parla) di Rita Frongia, pp. 82-83.
Il magistrale pas de deux di Rita Frongia
GIN GIN (DI COSA SI
PARLA QUANDO SI PARLA), drammaturgia e regia Rita Frongia. Con Angela Antonini
e Meri Bracalente. Prod. Esecutivi per lo Spettacolo, PRATO. Con il sostegno di
Regione Toscana, ArtistiDrama, Armunia, Teatro Due Mondi.
Terza
parte della Trilogia del tavolino
(composta da La vita ha un dente d’oro,
La vecchia e Gin Gin) lo spettacolo ne riprende il dispositivo minimale: due
maschere sedute a un tavolino, poche luci a illuminarle, qualche oggetto. Una
tenda di plastica colloca fuori o dentro a un bar, non-luogo immerso nel buio,
due sorelle. Piccoli pieni in mezzo a un grande vuoto, direbbe Beckett: delle archetipiche
Figure del Maestro irlandese Antonini e Bracalente tramandano la sospensione, l’attesa,
la sconsolata vitalità. Millimetriche variazioni di ritmo, direzione nello
spazio e tono muscolare rendono affatto mobile e vivissimo un dialogo costituito
di linguaggio ordinario, intriso di luoghi comuni e malevolenze, esilaranti nonsense
e uno sguardo attonito sul male che tutto circonda. Un irresistibile elenco
delle moltitudini contenute dentro la polvere si giustappone al dramma dei
migranti affogati in mare, la divinazione con l’I Ching a ingenue barzellette,
la paura della morte al profumo del caffè. Le attrici, con solida sapienza,
danno voce e corpo (quanta possente fisicità può esserci, in due persone sedute
a un tavolino!) a un «canovaccio accurato» composto da parti fisse e mobili,
secondo un’idea antica di arte che pone al centro l’attenzione viva al mondo:
quello strambo della scena e quello, forse ancor più bizzarro, che ne sta al di
là. La lingua si intride di cadenze regionali per entrambe le Figure, la cui
forza attoriale pare risiedere nella sensibile complementarietà degli opposti,
a creare un unico organismo scenico minimale e sovrabbondante, stilizzato e
barocco, immobile e concitato. Gin Gin è un pas de deux di corpi-voce in profondo ascolto ritmico reciproco, un
esercizio di presenza scenica che andrebbe mostrato in ogni scuola o corso di
recitazione, a testimoniare una pratica rigorosa e lieta, ben lontana dalla
mera esibizione di bravura fine a sé stessa. Sintetizzare il reale mediante
l’antica arte del teatro con lieve, impeccabile sapienza. Chapeau.
Michele Pascarella
Hystrio 1.2019:
Dossier Teatro e Periferie > Emilia Romagna + focus Teatro dell'Argine, pp. 42-43
L’(Emilia) Romagna Felix rinasce in periferia
È forse plausibile tracciare una traiettoria, da ovest
a est, ad intercettare realtà connotate da una medesima attitudine “etimologica”
dell’azione teatrale: creare spazi, farsi luogo, per dar consistenza a sguardi
e visioni. Spesso divergenti, appartati, comunque fiammanti. A Parma, dal 1988, Lenz
(prima Rifrazioni, poi Fondazione) ha sede in un edificio industriale nella
prima periferia in un quartiere da molti considerato pericoloso, in
cui persegue una ricerca estetica rigorosa, lavorando soprattutto con la sensibilità
psichica e curando il Festival Natura Dèi Teatri. Nel 2019 iniziano a Reggio Emilia
le attività della Casa delle Storie, voluta dal Teatro dell'Orsa a 15 anni
dalla propria fondazione. Già vincitore del Premio Scenario per Ustica, il
gruppo opera principalmente nell’ambito del teatro sociale, anche in progetti con
e per migranti. La Casa delle Storie sta nascendo con il contributo di cittadini
di molte nazionalità. Analogamente a Gualtieri, a pochi chilometri da Reggio Emilia, grazie al contributo della comunità negli
ultimi anni è ripartita, vivacissima, l’attività di una struttura demolita in
parte negli anni Ottanta, il Teatro Sociale, fascinoso spazio senza
palcoscenico completamente ristrutturato dai cittadini che ospita una
proteiforme programmazione in buona parte curata da giovani under 30. Il Festival Periferico di Modena, a cura
del Collettivo Amigdala, da 10 anni si realizza in
aree degradate e in spazi pubblici poco valorizzati. Dal 2016 Amigdala svolge la
propria attività, festivaliera e annuale, tra le fabbriche del Villaggio
Artigiano di Modena Ovest. Nella stessa città il Teatro dei
Venti dal 2005 concentra la propria attività negli spazi urbani e nell'incontro
con le comunità, con progetti in carcere, con la salute mentale e i richiedenti
asilo. Ciò, dal 2012, ha apertura e sintesi nel Festival Trasparenze. Nel 2009,
a Bologna, Laminarie fonda DOM la cupola del Pilastro, spazio che intreccia
svariati ambiti artistici coinvolgendo abitanti di diverse età e provenienze. L’azione
si estende a tutto il quartiere (il più multietnico di Bologna): fra i molti esiti
vale ricordare Midollo, spettacolo
che nel 2016 ha attraversato un edificio lungo un chilometro e i cui
protagonisti sono stati i cittadini che lo abitano. A Pontelagoscuro (FE), nel
2004 il Teatro Nucleo ha trasformato un ex cinema, inattivo da oltre 20 anni e situato
in una periferia con crescenti problemi sociali e di micro-criminalità, nel fulcro
di un’azione che incarna un’idea di arte come strumento di relazione: basti
pensare a Totem Arti Festival, nato in collaborazione con le Associazioni del
territorio nonché al Gruppo Teatro Comunitario, che dal 2005 al 2015 ha
coinvolto decine di cittadini di ogni età. Dal 2010 il centro culturale Cisim a
Lido Adriano (RA), paese sulla costa in cui si parlano 55 lingue, nell’ambito della
propria proteiforme programmazione propone numerosi spettacoli, anche in
collaborazione con il Teatro delle Albe, nonché i laboratori della non-scuola rivolti ai bambini del
territorio. Infine: dal 2014 a Poggio Torriana (RN), a pochi chilometri da
Santarcangelo di Romagna, Roberto
Scappin e Paola Vannoni (quotidiana.com) curano una rassegna di teatro contemporaneo d’autore. Vi hanno
inoltre attivato laboratori di teatro rivolti a persone con problematiche
psico-fisiche medio-gravi. Buone pratiche, di periferia.
Focus: Teatro dell’Argine
La compagnia del Teatro dell’Argine,
composta oggi da una trentina di persone tra attori, registi, drammaturghi,
tecnici, organizzatori e amministrativi, nasce negli anni Novanta con un
progetto culturale e artistico rivolto a tutta la comunità: non solo produzione
di spettacoli, ma anche formazione del pubblico, didattica teatrale per
professionisti e non, azioni speciali legate alle fragilità, ideazione e
gestione di spazi artistici e sociali, collaborazioni con compagnie, teatri e
università ma anche carceri, ospedali, centri d’accoglienza in Italia, Belgio,
Svezia, Svizzera, Germania, Inghilterra, Francia, Lussemburgo, Polonia,
Danimarca, Turchia, Senegal, Tunisia, Marocco, Palestina, Bolivia e Brasile. Dal
1998 gestisce alle porte di Bologna l’ITC Teatro, il teatro comunale di San
Lazzaro di Savena. Nel corso degli anni, il Teatro dell’Argine è diventato un
punto di riferimento in campo nazionale e internazionale non solo sul piano
artistico (premio della Critica 2006, premio Hystrio alla drammaturgia 2009,
premio speciale Ubu 2011, premio Camillo Grandi 2012, premio della Critica
2015, premio Nico Garrone 2015, premio Ubu 2015, Premio della Critica 2017,
Eolo Awards 2018) ma anche nell'ideazione e realizzazione di progetti in cui il
teatro si mette a disposizione di contesti interculturali, sociali, educativi e
pedagogici. È proprio nel continuo mescolamento di questi piani, nella
contaminazione delle pratiche, negli incroci tra arte e impegno sociale, nella
capacità di coinvolgere professionisti e non professionisti, italiani e
stranieri, nella creazione di monologhi come Italiani Cìncali o spettacoli per mille attori come Futuri Maestri che la compagnia ha
trovato una sua cifra poetica ben precisa: perseguire un teatro capace di
parlare alle persone prima ancora che agli spettatori. Un teatro che sappia
trasformarsi da pratica esclusiva in arte inclusiva. Un teatro che torni a essere luogo
della relazione e dell’incontro prima ancora che prassi di visione.
Michele Pascarella
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Recensione di Pragma di Teatro Akropolis, p. 67.
Teatro Akropolis, l’esperienza del mistero
PRAGMA. STUDIO SUL MITO DI DEMETRA, regia di Clemente
Tafuri e David Beronio. Con Domenico Carnovale, Luca Donatiello, Aurora
Persico, Alessandro Romi. Prod. Teatro Akropolis, GENOVA.
Ci sono spettacoli
in merito ai quali è possibile enumerare con chiarezza le ragioni di un eventuale
apprezzamento: la maestria degli interpreti, ad esempio, oppure la raffinatezza
della scrittura drammaturgica, le invenzioni registiche, l’interesse per la
storia raccontata, ecc. Ce ne sono altri (e questo ibrido fra teatro, danza e
rituale è fra essi), il cui fascino è ben più difficilmente definibile. L’ensemble
genovese costruisce una rigorosissima e al contempo lieve partitura in cui
quattro dediti performer incarnano (al di là di ogni psicologismo) le mitiche
figure di Demetra, Ade, Persefone e Baubò. Agiscono in un rettangolo di luce
azzurra, immobile dall’inizio alla fine, secondo un costrutto registico
minimale e visionario, a comporre una quantità di contrasti corporei affatto
concreti: rilassatezza e tensione, movimento e stasi, alto e basso. L’espediente
del volto spesso celato agli spettatori (dal porsi in controluce o dai capelli atti
a nasconderlo), sposta nell’intero corpo la struggente espressività di questi officianti
muti e ansimanti. Il movimento a tratti si struttura in danza: affiorano
frammenti che ricordano il butoh di Kazuo Ōno, le danze
sacre di Gurdjieff o certi balli popolari del sud Italia (memorabile, per precisione e densità, la
sequenza in cui un performer compie una lunghissima serie di veloci rotazioni
sul proprio asse intrisa di innumerevoli, esattissime variazioni). Pragma evoca mitici accadimenti che cronologicamente
precedono il teatro, finanche i misteri eleusini. Ma, questo è il fatto più
interessante, ciò che è dato al pubblico non è il racconto, la rappresentazione
di un mistero, quanto l’essere posti di fronte a un accadimento, il farne
esperienza. Non si pensi a qualcosa di criptico: questo Studio sul mito di Demetra è semplice e definitivo come un taglio
su una tela (blu) di Lucio Fontana. E, in questo caso come in quello, è un
invito ad affacciarsi su un altrove, umanissimo e indefinibile: al confine tra
corporeità e mistero.
Michele Pascarella
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Recensione di Saluti da Brescello del Teatro delle Albe, p. 81.
Le umanissime marionette
delle Albe
SALUTI DA
BRESCELLO, drammaturgia e regia Marco Martinelli. Con Luigi Dadina,
Gianni Parmiani. Tecnico luci e audio Dennis Masotti. Prod. Teatro delle
Albe / Ravenna Teatro, RAVENNA.
Hanno la legnosità e il
guizzo delle umanissime marionette pasoliniane di Che cosa sono le nuvole?, le Figure che danno carne al testo di
Marco Martinelli scritto nel 2017 per il Teatro di Roma, poi sviluppatosi nel corale
Va pensiero e ora «messo in vita» da Luigi
Dadina, co-fondatore del gruppo ravennate e Gianni Parmiani, discendente di molte
generazioni di attori dialettali già protagonista della lettura scenica romana,
poi sostituto dello stesso Dadina in Va
pensiero. Intrecciando storie e Storia, si racconta la vicenda realmente
accaduta al vigile urbano Donato Ungaro a Brescello, in provincia di Reggio
Emilia, licenziato a causa delle sue denunce sulle infiltrazioni della
‘ndrangheta nel paese. Lo spettatore è accolto da due grandi fotografie,
proiettate sul fondale, raffiguranti le rappresentazioni scultoree di Don
Camillo e Peppone presenti nella piazza di Brescello. In apertura i due attori,
in piedi su cubi posti al centro della scena, assumono le medesime posture, a
dare avvio a un gioco di presentazioni e rappresentazioni in cui le maschere
continuamente fanno trapelare la propria etimologia: l’essere persone. Come già
l’imponente Va pensiero, anche questa
miniatura infrange la comoda dicotomia buoni-cattivi e il vetusto cliché
secondo il quale la criminalità organizzata sarebbe appannaggio del Sud Italia:
il «Mondo Piccolo», come il creatore di questi personaggi archetipici, Giovannino
Guareschi, chiamò l’ambiente in cui essi vivevano e senza posa discutevano, è
ricreato in un luogo popolato di immagini e immaginari, di ritmo e figure. Questo
artigianale capriccio all’italiana propone molteplici dualismi: il
teatro nel cinema e il cinema nel teatro, la finzione della realtà e la realtà
della finzione, apparire ed essere, finanche vita e morte. Come non pensare a Sul
teatro di marionette in cui Heinrich von Kleist mise in
scena, attraverso una sequenza di contraddizioni e paradossi, il rapporto tra
Animato e Inanimato e, dunque, con il sovrasensibile?
Michele Pascarella
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Recensione di Sopra di me il diluvio di Enzo Cosimi, p. 95.
La commovente apocalisse di Enzo Cosimi
SOPRA DI ME IL DILUVIO, regia, coreografia, scene,
costumi Enzo Cosimi. Collaborazione alla coreografia e
interpretazione Paola
Lattanzi. Video Stefano
Galanti. Musiche Chris Watson, Petro Loa, Jon Wheeler. Frusta sciamanica Cristian Dorigatti. Disegno luci Gianni Staropoli. Prod. Compagnia
Enzo Cosimi, ROMA, in collaborazione con Biennale di Venezia 2014, con il sostegno per le residenze di Fondazione Teatro Comunale
Città Di Vicenza, Arteven, A.C.S. Abruzzo Circuito Spettacolo,
Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano.
Contiene
moltitudini, il corpo-teatro di Paola Lattanzi, che in stretta sinergia con la
sapienza compositiva e maieutica di Enzo Cosimi crea un dispositivo semplice e
al contempo intriso di mille colori, che si muove senza posa, come su un piano
inclinato, fra coppie di opposti: natura e cultura, innanzi tutto, ma anche
forma e informe, stilizzazione e sovrabbondanza di segni, pars construens e pars
denstruens, requie e agitazione, sfrontatezza e pudore, presentazione e
rappresentazione, insensatezza ed esortazione, primitivismo e postmodernità,
narrazione e astrazione. Una sorta di erotismo disfatto intride la performer
che, in tacchi alti e succinti abiti neri, perimetra con ampie falcate e poi
abita una scena in cui trovano spazio alcune vecchie sedie imbottite, un
vetusto televisore e una quantità di ossa evocanti un qualche imponente
animale: suppellettili che veicolano le ossimoriche polarità di cui Lattanzi «si
fa luogo», per dirla con Michel De Certeau, sorta di correlativo oggettivo
dell’atletismo commoventemente insensato, pervicacemente antigrazioso che
connota il suo fare. Sopra di me il
diluvio, spettacolo che pare affatto riduttivo, ancorché esatto, definire
un assolo, prosegue un discorso dal sapore apocalittico iniziato (almeno) con
il precedente Welcome to my world.
Esso pare dichiarare una resa, nel rapporto umano-natura: iniziata con espressioni
muscolari (o meglio nervose) di forza e controllo sulla sghemba realtà circostante,
la traiettoria performativa si conclude con un corpo coperto di bende. Soverchiato,
vinto, finanche dolente. Le luci cupe e sognanti di Gianni Staropoli
contribuiscono non poco a dare forma e ulteriore mobilità a un universo al
contempo a sé bastante e pienamente specchio del mondo. Un luogo che si fa
teatro: nutrimento dello sguardo, possibilità di visione.
Michele Pascarella
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Recensione del libro «Perché
di te farò un canto». Pratiche
ed estetiche della vocalità nel teatro di Jerzy Grotowski, Living Theatre e
Peter Brook di Mauro
Petruzziello, p. 114.
La
voce dei Maestri
«Perché
di te farò un canto». Pratiche
ed estetiche della vocalità nel teatro di Jerzy Grotowski, Living Theatre e
Peter Brook, di Mauro
Petruzziello. Roma, Bulzoni Editore, 2018, pagg. 268,
euro 25, ISBN 978-88-6897-110-6.
Accerchiare una materia tanto sfuggente
quale è la vocalità nel teatro contemporaneo contrastandone l’ontologica
evanescenza: è arduo e prezioso il compito che questo saggio si assume,
indagando con nitida visione e «precise parole» -si potrebbe dire con Ivano
Fossati, una cui composizione dà il titolo al volume- il lavoro vocalico di Jerzy Grotowski, del Living Theatre e di Peter Brook. Senza
indulgere in sterili tecnicismi Petruzziello intreccia l’analisi di parametri del
suono (altezza, intensità, ritmo, modo e timbro) a enunciati di poetica degli
artisti (spesso poveri di testimonianze relative al lavoro vocale, rifiutando
alcuni di essi -Living in primis- il
concetto di “metodo”) fino allo studio, secondo una prospettiva sonora, degli
spettacoli, delle pratiche di allenamento degli attori e delle prove. Alla
sezione analitica succedono alcune proposte di lettura trasversale (attingendo
a svariati ambiti del sapere, come non può non essere dato il proteiforme oggetto
di studio) delle prassi e delle estetiche. Tra esse particolarmente ficcanti
appaiono l’analisi della (inconsapevole?) influenza che il lavoro vocale di Artaud
ha avuto sull’approccio alla voce dei tre Maestri presi in esame e, a partire
da un’intuizione di Valentina Valentini, la lettura delle suddette pratiche
attraverso la lente del figurale,
concetto elaborato da Lyotard e poi applicato da Deleuze alla pittura di Bacon
secondo il quale si può sfuggire «sia alle logiche figurative, che sul piano
drammaturgico corrispondono alla linearità drammatica, sia alla pura
astrazione». Parimenti l’intero volume evita di istituire la dicotomia logos / phonè che è facile adottare quando si analizza l’uso espressivo e
artistico della voce: «non esiste un logos
devocalizzato», sintetizza il colto autore. Chapeau.
Michele Pascarella
Hystrio 4.2018:
Recensione di Fole di Michelle Moura, p. 66.
La
danza come esperienza di Michelle Moura
FOLE, ideazione e performance Michelle Moura. Sound design
Rodrigo Lemos. Suono Kaj Duncan David. Light
design Fábia Regina. Drammaturgia Alex Cassal. Prod. Cândida Monte, Wellington
Guitti, BRASILE. Finanziato da Rumos Dança - Itaú Cultural, con il supporto di
Artistas en Residencia PAR 2013, Taller Casarrodante, FIDCU (Montevideo - UY).
Rituale
laico, basato non sulla fede ma sull’atto, si potrebbe sintetizzare prendendo a
prestito alcune definizioni di Jerzy Grotowsky per evocare questa azione dagli
intenti trasformanti fra yoga e sciamanesimo, terapie post-psichedeliche e mondo animale. Fulcro primario è la
respirazione, da cui deriva l’alternanza di tensione e distensione che informa
di sé l’intera performance. In apertura vien da pensare a Mary Wigman e alla
sua celeberrima Danza della strega:
seduta a terra, piedi nudi battuti sul pavimento, secchi movimenti ripetuti dal
sapore autoconsolatorio. Ciò dà avvio a
un’organica progressione vocalica di espirazioni sonore, lamenti, grugniti e
mugolii a cui corrisponde un’energica sequenza di posture stilizzate, bruschi
spostamenti nello spazio, finanche gesti autolesionistici à la Vito Acconci, che in pieno spirito bodyartistico paiono
rispondere a una personale esigenza estetica (termine ancora una volta da
intendersi come opposto di anestetico, non di inestetico): «scena-crogiolo in
cui si rifanno i corpi» si potrebbe dire con Artaud «per calpestio di ossa,
membra e sillabe». Quello
che è dato a vedere, in questo accadimento che sembra sommamente improprio
definire spettacolo, è un continuum di circa 45 minuti di trasformazioni
energetiche e modificazioni dello stato di coscienza che l’azione stessa
produce sulla performer. L’anti-grazioso
Fole propone un’idea e una prassi di
danza come esperienza, lontanissima da ogni intento narrativo, che il pubblico
può ricevere per via cinestetica, grazie all’empatia con ciò che accade in
scena che anni di studi sui neuroni specchio hanno ormai anche scientificamente
validato. Moura revoca la figura dello spettatore riformulandone il ruolo in
termini di partecipazione seppur, e questo è il dato più interessante della
proposta, lasciandolo seduto in platea ed eseguendo una sequenza di azioni
fisiche e vocali che all’apparenza sono a suo unico, personale beneficio. Non
opera d’arte, dunque, ma opera dell’arte.
Michele Pascarella
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Recensione di 105: International Society for the Creatively
Maladjusted di Nana
Biluš Abaffy, p. 66.
Nana Biluš Abaffy, pars
destruens vs pars construens
105: INTERNATIONAL SOCIETY FOR THE
CREATIVELY MALADJUSTED, ideazione
Nana Biluš Abaffy, in collaborazione con Milo Love & Geoffrey Watson.
Performers Nana Biluš Abaffy, Milo Love & Geoffrey Watson. Commissionato da Underbelly Arts Lab and Festival. Con
il supporto di Melbourne Festival of Live Art, Phillip Adams BalletLab /
Temperance Hall, Victorian Government con Creative Victoria, Zagreb Dance
Center.
Nana Biluš Abaffy, artista di
Melbourne nata a Zagabria, ha installato negli uffici dismessi di una ditta di
Santarcangelo di Romagna uno spettacolo dolente e lirico, inusitato e
monolitico. Tre magnetici performer, con
ostentata noncuranza, guidano il pubblico in uno spazio fatiscente occupato da
cataste di cartelline, vecchie sedie e scrivanie ammucchiate, cianfrusaglie e
polvere. Il loro fare si accorda con tale disfacimento, a creare un luogo di
macerie e abbandono di cose e presenze: minimi movimenti coreografici e lacerti
testuali, utilizzati a mo’ di invocazioni e invettive, compongono un paesaggio
di tentativi mancati intriso di silenzi e rumori materici (la consistenza
sonora di una sedia trascinata, di un mobile spostato, di un carrello
sospinto), certo non scevro da un certo compiaciuto estetismo del degrado dal
sapore un po’ retrò. Di tanto in tanto affiorano figurazioni che paiono
assecondare un’idea di bellezza classica: sopra a una catasta di cartelline una
composizione di corpi che ricorda la statuaria antica così come l’esecuzione,
in mezzo ai detriti, di passi e posture riconducibili al più nobile balletto
ottocentesco. Pars destruens vs pars construens, si potrebbe forse
sintetizzare. Come non pensare alla Merzbau creata da Kurt Schwitters
nel 1923, secondo il principio di procedere a un riscatto degli elementi
solitamente da destinare a qualche discarica? Cattedrale delle miserie
erotiche: il titolo integrale della Merzbau potrebbe forse essere applicato anche a 105,
spettacolo in cui la reiterata nudità dei performer (di cui un transessuale) è
presentata senza alcunché di conturbante, finanche con intenzionale sciatteria.
Nessuna luce teatrale, né musica registrata: il mondo così come si presenta è
luogo e motore di questa arte. Che piaccia o meno.
Michele Pascarella
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Recensione di Be careful di Mallika Taneja, pp. 66-67.
L’India,
la violenza sulle donne, l’ironia
BE CAREFUL, ideazione
e performance Mallika Taneja. Creato per la prima volta come parte dello
spettacolo “NDLS” al Tadpole Repertory Theatre, New Delhi, INDIA.
È
veloce e netta come un taglio su una tela, la performance che l’indiana Mallika
Taneja ha creato a partire da un tema sociale di stretta attualità, in India e
non solo: la necessità femminile di stare in guardia, controllando
abbigliamento e atteggiamenti, per evitare attenzioni maschili indesiderate. In
neanche trenta minuti la giovane artista traccia una chiarissima parabola:
entra nuda nello spazio scenico in cui sono esposti una quantità di
coloratissimi capi d’abbigliamento e stoffe e, dopo un lungo momento in cui
osserva ed è osservata dal pubblico, lentamente inizia a indossarli uno
sull’altro recitando (o meglio: dicendo) un testo che ha per oggetto
l’attenzione che, in quanto donna, deve fare quando esce di casa al fine di
evitare fastidi. Compiendo un percorso parallelo e inverso a quello della
celeberrima performance Shirtology (in cui Jérôme Bel si sfilava una dopo l’altra
quaranta magliette la cui decorazione era di volta in volta occasione di
un’azione fisica e vocale), Mallika Taneja sovrappone strato a strato, vestito a
vestito: elementi che divengono il medium necessario, al pari del corpo, per
articolare il proprio discorso. Be
careful ha la grazia di una folgorante, socratica ironia che fa risaltare,
in un esattissimo crescendo ritmico complessivo, le spiccate capacità dell’interprete
di accordarsi con il pubblico in un alternarsi di pause, sguardi, azioni di
vestizione e sequenze testuali. Di notevole interesse, inoltre, la scelta
prospettica di fondo: non assegnare alla protagonista il monolitico,
semplicistico ruolo di vittima, ma porre una fonda questione su quanto il
modello culturale che attribuisce alla donna la responsabilità della propria
incolumità sia introiettato e spesso inconsapevolmente accettato, in India et ultra. Memorabile un sincopato e
serratissimo frammento testuale con una ridda di giochi di parole sul termine
«responsability». Ritmo, chiarezza comunicativa, colori, ironia, denuncia: un
minuscolo, indimenticabile capolavoro.
Michele Pascarella
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Recensione di I am within di Dewey Dell, pp. 67-68.
Dewey
Dell, l’infanzia e il mistero
I AM WITHIN, con Gioia Pascucci e con Alma
Pascucci. Coreografia Teodora Castellucci. Musica originale Demetrio
Castellucci. Disegno luci Eugenio Resta. Costumi Guoda Jaruševiciute. Cura
Agata Castellucci. Con il sostegno del MiBACT e di SIAE, nell’ambito
dell’iniziativa “Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura”.
Prod. Societas, CESENA.
Parte, insieme a I
am without, di un dittico che si pone come scandaglio delle profondità
della mente, il nuovo spettacolo di Dewey Dell vede in scena una performer
dodicenne che con sorprendenti precisione e potenza esegue, davanti a un
fondale nero, una partitura coreografica elaborata da Teodora Castellucci. È un
immaginario ben poco “bambinesco” quello a cui si dà corpo, lasciando spazio a
una concezione dell’infanzia come età in cui si è più vicini al lato
misterioso, finanche insondabile, dell’essere e del sentire. La partitura, che
intreccia scattanti passaggi astratti a una ridda di immagini che emergono
anche dalla proteiforme interazione con un lenzuolo bianco, unico oggetto di
scena, ripropone fedelmente la qualità di movimento (energico e flessuoso, muscolare
e lirico) della talentuosa autrice: come non pensare al rapporto di Isadora
Duncan con Les Isadorables, le giovani allieve da lei adottate che, fin dal
nome, divennero suoi epigoni? I am within,
pur inanellando una serie di montée
che sembrano ripetutamente preludere a un finale che tarda ad arrivare, ha il
merito di proporre allo sguardo del fruitore una compresenza, affatto
contemporanea, di presentazione (una ragazzina che non fa la bambina,
semplicemente lo è) e rappresentazione (le molte immagini emergenti mediante la
partitura coreografica). Ciò è amplificato dall’entrata in scena, negli ultimi
minuti, di un’infante più giovane, travestita con abiti regali, le cui minime
azioni ludiche nello spazio, con tanto di piccoli giocattoli, enfatizzano la compresenza
delle suddette modalità comunicative. La scrittura musicale, realizzata su suoni a
bassa frequenza provenienti da cetacei, descrive e al contempo sostiene, con
vigore, il tema del dittico, la cui altra metà ha per protagonista
un’adolescente.
Michele Pascarella
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Recensione di A letter to my nephew di Bill T. Jones, p. 90.
Il dramma
tutto esteriore di Bill T. Jones
A LETTER TO MY NEPHEW, coreografia Bill T. Jones con Janet Wong e la Compagnia. Scene Bjorn Amelan. Musica originale eseguita dal vivo da Nick Hallett. Luci Robert Wierzel. Costumi Liz Prince. Video Janet Wong. Sound design Samuel Crawford. Interpreti Vinson Fraley Jr., Barrington Hinds, Shane Larson, I-Ling
Liu, Penda N’Diaye, Jenna Riegel, Christina Robson, Carlo Antonio Villanueva e
Huiwang Zhang. Con Matthew
Gamble, baritono.
Prod. Bill
T. Jones / Arnie Zane Company, NEW YORK.
Una
ridda di cliché costituisce (e affligge)
la nuova produzione del celebrato coreografo americano, qui intento a creare
una «cartolina» dedicata al nipote, promettente artista e modello finito tra
droga, prostituzione e malattia. Presentato in prima nazionale al Ravenna
Festival, secondo le intenzioni di Jones lo spettacolo si propone come
creazione site-specific tesa a dialogare
con le istanze sociali e politiche di ogni città in cui viene presentato: nel
caso romagnolo ciò si risolve in alcune proiezioni di immagini di mosaici e
poco altro. Banalità da cartolina, appunto. Medesimo trattamento è destinato
alla ricostruzione, per brevi quadri, degli ambienti di vita del giovane
dedicatario: le sfilate di moda, la vita di strada, il letto di ospedale. Tutto
è rappresentato con triti stilemi: felpe e risse simulate, musica da strada e
penombre da bassofondo. In questa sorta di ballet d'action contemporaneo l’anelito narrativo ha la meglio sull’indubbia perizia
di Jones nella composizione dei quadri, nella disposizione dei corpi nello
spazio e nell’articolazione di pieni e vuoti della scrittura complessiva.
Peccato. In quanto a sapere coreografico Jones è certo un maestro e l’ensemble
dei danzatori ha la grazia di una nitida, finanche adamantina precisione nel movimento
(evidente soprattutto nei sincroni e nella segmentazione dinamica di busti e
arti superiori): ciò sarebbe bastante a creare un sistema significante e autosufficiente.
A conclusione dei settanta minuti abbondanti di spettacolo è posto un
video-discorso al nipote, intriso di una quantità di luoghi comuni tra
ottimismo della volontà e retorica (tutta americana) da self-made man, per di
più nero e omosessuale. Presenza della parola, attenzione al gesto quotidiano,
utilizzo di oggetti di uso comune, fusione di istanze personali e temi
collettivi, abbandono di forme predefinite, centralità del corpo: se ciò
quaranta e più anni or sono, quando Jones iniziò a creare coreografie, costituì
un segno altro rispetto al panorama
coevo, dunque con indubbio valore di primogenitura (che l’establishment
coreutico internazionale gli ha peraltro pienamente riconosciuto), questo
recente esito performativo ha tutto il sapore, per mancanza di una pregnante
trasduzione linguistica del tema prescelto, di un passo falso.
Michele Pascarella
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Recensione libro Marco Martinelli. Un Drammaturgo Corsaro di Maria Dolores Pesce, p. 109.
La
drammaturgia della Felicità di Marco Martinelli
Marco Martinelli. Un Drammaturgo Corsaro
di Maria
Dolores Pesce
Spoleto
(PG), Editoria & Spettacolo, 2018, pagg. 202, euro 17
EAN 9788897276975
«E ora di nuovo tutti alla partenza»: si
chiude così, con sguardo circolare, l’appassionato studio che Maria Dolores
Pesce ha dedicato al lavorio drammaturgico di Marco Martinelli. Obiettivo
dichiarato: non scrivere un’ennesima storia del Teatro delle Albe (gruppo dalla
bibliografia corposa quasi quanto la produzione scenica), piuttosto «tentare
una sorta di sua anatomia estetica» mediante l’inedita analisi della scrittura
di Martinelli «nella sua capacità di intercettare il fare della compagnia». La
studiosa usa «il microscopio» per scrutare le opere dell’artista emiliano-romagnolo,
che già venti anni fa ben sintetizzava la propria prassi compositiva: «Non
scrivo da solo: a scrivere siamo in tre. La prima che scrive è una figura del
mondo: un romagnolo da bar, un giovane immigrato, un mafioso visto in
televisione […] la seconda che scrive è una figura del teatro: sono gli attori
che lavorano con me, le loro facce, le loro persone, voci, odori […] la terza
figura che scrive sono io: sono io che mi racconto lasciando irrompere dentro
di me gli altri, i corpi del mondo e i corpi del teatro, sono l’anima che
osserva, che intreccia i fili, che attorno alle maschere-persone articola le
storie». Per tale proteiforme paesaggio Maria Dolores Pesce propone la
definizione di «drammaturgia della Felicità», termine che nell’etimologia
latina possiede una radice comune con fecondità, «adesione alla intimità
produttiva del nostro esistere, del nostro stare in questo mondo», a realizzare
scritture al contempo radicate «nella sostanza generatrice del gruppo» e dotate
di un’ontologica «autonomia», scenica e letteraria. L’autrice, inoltre, rilegge
alcune modalità di lavoro di Martinelli individuando precise assonanze con
Edoardo Sanguineti, a cui nel 2003 dedicò un imprescindibile saggio.
Michele Pascarella
Hystrio 3.2018:
Recensione di Ubu Re del Teatro dei Venti, p. 76.
Ubu Re del Teatro dei Venti. O della Tradizione
UBU RE, a partire dall'opera di Alfred Jarry. Regia e
drammaturgia Stefano Tè. Con Fonci Ahmetovic, Alessio Boni, Oksana Casolari,
Fabio De Nardi, Diego Di Lascio, Francesca Figini, Davide Filippi, Daniele De
Blasis, Daniele Novelli, Giuseppe Pacifico, Makua Saieva, Antonio Santangelo,
Sejfuli Nadir, Felix Tehe Bly. Allestimento scenico Teatro dei Venti. Costumi
Alessandra Faienza e Teatro dei Venti. Sound designer Domenico Pizzulo.
Assistente alla regia Simone Bevilacqua. Progetto realizzato in collaborazione
con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, la Casa Circondariale di
Modena e la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. Prod. Teatro dei Venti (MODENA).
Intesse trame con la
Tradizione del Novecento teatrale et
ultra, lo spettacolo che Stefano Tè ha creato intrecciando componenti
storici della sua Compagnia a un gruppo di attori detenuti. L’allestimento,
nato nell’ambito di un benemerito Coordinamento regionale che per il biennio 2016-2018 ha
scelto di utilizzare il testo di Jarry come riferimento comune, pare evocare almeno due esperienze
ormai storicizzate. La prima: le note ricerche sullo spazio scenico, fiorite
circa un secolo fa, tese a ri-conoscerlo quale elemento
«drammaturgicamente attivo». Le Figure interagiscono senza posa con una
scenografia mobile, composta da praticabili di legno variamente posizionati al
centro, con il pubblico disposto specularmente su due lati: come non pensare al dispositivo costruttivista, simbolico e al contempo
reale, creato per Le
Cocu magnifique di Mejerchol'd nel 1922? La seconda, ben più prossima a noi: l’allestimento di The Brig di Kenneth H. Brown realizzato da Armando Punzo del
1994 (a sua volta figlio di quello del Living
Theatre di trent’anni prima), a proporre un’analoga immagine del detenuto
muscoloso, eventualmente tatuato, con pantaloni pesanti e a torso nudo che con
attitudine muscolare interagisce con i compagni e con lo spazio. Se è vero che citare significa inserire nel proprio
discorso elementi altri,
trasformandone il segno, in questo spettacolo fatica forse a emergere con
chiarezza quale creazione linguistica si stia compiendo, quale “figura terza”
sorga dall’incontro con le Tradizioni a cui si dà corpo. Se alcuni aspetti
ritmici e compositivi della sintassi teatrale (reiterata alternanza
buio-penombra a staccare i diversi quadri, ripetizione di alcune sequenze gestuali,
recitazione ostinatamente muscolare ed estroflessa) rimangono parzialmente
irrisolti, i maggiori meriti del lavoro, anche rispetto a precedenti esperienze
della Compagnia con attori detenuti, paiono essere la più ficcante concretezza
e il maggior controllo dell’emotività espressa dalla scena.
Michele Pascarella
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Recensione di Dentro le cose di Laminarie, pp. 76-77.
Laminarie.
L’operaio e la danza
DENTRO LE COSE, di e
con Febo Del Zozzo. Prod. Laminarie, BOLOGNA.
«Nell’esaminare il lavoro di un operaio esperto,
riscontriamo: a) l’assenza di movimenti superflui, improduttivi; b) la
ritmicità; c) l’individuazione del giusto centro di gravità del proprio corpo;
d) la resistenza. I movimenti fondati su queste basi si distinguono per il loro
carattere “di danza”, il lavoro di un operaio esperto sfiora i confini
dell’arte»: una delle memorabili lezioni di V.E. Mejerchol'd sintetizza
perfettamente l’attitudine pienamente performativa, dunque di presentazione (più
che attoriale, cioè di rappresentazione) con la quale Febo Del Zozzo costruisce
e abita lo spazio scenico di Dentro le
cose, spettacolo-summa che trasduce segni e dispositivi di tre opere che la
Compagnia da lui fondata e guidata ha dedicato fra il 2000 e il 2012 ad
altrettante «figure
esemplari» (gli artisti visivi Jackson Pollock e Constantin Brâncuși oltre a Varlam Šalamov, scrittore russo che trascorse
diciassette anni in un campo di lavoro sovietico). Dentro le cose si pone con evidente fiducia fenomenologica, nomen omen, come una sorta di appassionata, concretissima visita guidata a
«vite di un’altra fibra». Un energico e al contempo delicatissimo Del
Zozzo per mezzo (e al servizio) di carrucole, travi, corde, scale, attrezzi e
tubi dà luogo a un misterioso ma per nulla ostico teatro di figura intriso di
suoni materici che articola per quadri un viaggio cadenzato da luci geometriche
e nette. Tirare, sbattere, sollevare, impilare: è attraverso la lingua del fare
che la figura in scena edifica una drammaturgia di pieni e di vuoti, di
dinamismo e requie, di penombre e oscurità. La performance «si fa luogo»,
direbbe Michel de Certeau, di una wunderkammer
dal sapore costruttivista punteggiata da trucchi poveri, realizzati a vista, e
composta da una quantità di pezzi staccati che evocano senza descrivere, suggeriscono
senza narrare, creano immagini e immaginari senza mai chiuderli in un perimetro
dato. A mo’ di sineddoche vale almeno ricordare un frammento in cui «l’operaio
esperto» Del Zozzo imprime a una sedia di legno, sospesa a mezz’aria per mezzo
di funi e ganci, un dinamismo che progressivamente diviene danza impazzita,
insensata: sorprendentemente, etimologicamente
drammatica. Chapeau.
Michele Pascarella
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Recensione di Euforia di Habillé d'eau, pp. 94-95.
Habillé
d’eau. Così lontano, così vicino
EUFORIA, ideazione e
regia Silvia Rampelli. Danza Alessandra Cristiani, Eleonora Chiocchini, Valerio
Sirna. Luce Gianni Staropoli. Musica Tiago Felicetti. Voce Charlie Pitts, Julia
Bozzo Magrini. Quadrifonia e ottimizzazione del suono Daniel Bacalov. Coproduzione
Armunia-Festival Inequilibrio-Castiglioncello, Fabbrica Europa 2017.
Sostegno Short Theatre, Angelo Mai, Studio Movimento. Prod. Habillé d’eau,
ROMA.
Un’esposizione
di corpi che non rinviano ad altro che alla propria materialità, a suggerire
all’occhio dello spettatore ciò che Merleau-Ponty definiva «guardarsi
guardare»: è radicale e spiazzante, la domanda posta da questo nuovo quadro di Silvia
Rampelli, (f)autrice di un teatro etimologicamente inteso come «luogo dello
sguardo, della visione». Lontanissimo dalla narrazione, dal farsi veicolo di
contenuti o addirittura di messaggi, Euforia
non ha nulla a che vedere con la spettacolarizzazione né, tantomeno, con l’intrattenimento.
Sguardo e visione, si diceva: l’opera evoca, mediante le dense anatomie che
abitano la scena, qualcosa di inafferrabile eppure pienamente percepibile. I
tre performer, «piccoli pieni in mezzo a un grande vuoto» si potrebbe
sintetizzare con Beckett, proprio come in certi dramaticules, drammucoli, o shorter
plays del celeberrimo irlandese paiono tendere verso il silenzio, il non
fare, la pagina bianca: essere e basta. Sineddoche di una tale attitudine è il
corpo nudo, immobile di Alessandra Cristiani, potente sintesi di körper, corpo-cosa e leib, corpo agito, unità vissuta di
percezione e movimento. Parallelamente, il montaggio strutturalista di Silvia Rampelli
pone in evidenza lo scheletro di Euforia:
scene staccate, segnate dalle luci significanti, finanche materiche di Gianni Staropoli,
nelle quali cambi netti di posizione e postura appaiono, oggettivamente, nello
spazio. Nell’austero processo in sottrazione proposto dalla performance, spesso
anche i volti sono celati. Le Figure sono poste di spalle, o con i capelli
davanti al viso, a manifestare l’intenzione di eliminare dal corpo l’impronta
dell’individuo, la sua haecceitas: è
un gesto che avvicina allontanando, spiritualizza incarnando, individualizza
universalizzando. Come in ogni immagine (esempio non casuale: gli animali nelle
pitture parietali delle Grotte di Lascaux), i corpi di Euforia paiono essere pienamente sulla scena e, al contempo, in un
indefinibile, lontanissimo altrove.
Michele Pascarella
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Recensione libro La grazia non pensa. Discorsi intorno al teatro di Claudio Morganti, p. 115.
Morganti.
L’arte del domandare
La
grazia non pensa. Discorsi intorno al teatro
di
Claudio Morganti
a cura
di Armando Petrini
Imola
(BO), Cue Press, 2018, pagg. 132, euro 23,99
ISBN
978-88-99737-63-4
«Tutto arrosto e niente fumo», sintetizza Piergiorgio Giacchè in
una delle riflessioni che chiudono questa
raccolta di scritti di
un artista da molti considerato un Maestro della scena degli ultimi decenni. E
proprio ai Maestri del Novecento teatrale si riferisce esplicitamente Claudio
Morganti in particolare nella sezione d’apertura, Convegni e raduni, nella quale trovano spazio testi
preparati per interventi pubblici dai quali affiora un’analoga tensione a far
sì che il teatro torni ad essere un mezzo e un luogo di azione reale dell’uomo
sull’uomo, ancor prima che dell’attore sullo spettatore. «Se evitiamo di chiederci e di continuare a
chiederci che cos’è il teatro, commettiamo un atto criminoso» dichiara l’autore, preferendo
ai sistemi chiusi le domande aperte, evocando la prassi e la storia del teatro
per sollecitarle dialetticamente mantenendo aperte tutte le domande, in primo
luogo l’interrogazione elementare sul «che cos’è il teatro?». La prima parte del volume contiene inoltre le sezioni Manifesti, che raccoglie alcuni interventi brevi
presentati per l’appunto come manifesti, e Altri scritti, che comprende una quindicina di testi diversi: una ridda di pensieri
in azione prodotti, per dirla con il contributo di Attilio Scarpellini che chiude
questi Discorsi, «come quegli artisti che disegnano senza mai staccare
la mano dal foglio».
Tra i molti testi
presenti, quasi tutti già pubblicati in rete ma non ancora riuniti in volume, sorprende
quello di una conferenza spettacolo di Morganti del 2016 sul rapporto tra teatro e
fotografia. Partendo dalla pratica d’epoca vittoriana delle foto post mortem e passando, fra gli altri, da Emilio
Salgari e Gerhard Richter, si chiude con alcuni Maestri dell’improvvisazione
jazz: ardite, intelligenti capriole.
Degne di un Maestro.
Michele Pascarella
Hystrio 2.2018:
Recensione di Iperscene 3 a cura di Matteo Antonaci e Sergio Lo Gatto, p. 73.
L'indefinibile realtà della scena di oggi
Iperscene 3
a cura
di Matteo Antonaci e Sergio Lo Gatto
Spoleto (PG), Editoria & Spettacolo, 2017,
pagg. 212, euro 16
ISBN 9788897276876
È un presente dagli elastici confini, quello
di cui si occupa il volume curato con competente visionarietà da Antonaci e Lo
Gatto. Una realtà composita ed eterogenea costituita da esperienze tutte
singolari, autoriali, cangianti, finanche inclassificabili, di cui forse non è
dato tracciare un ritratto sintetico: Anagoor, Codice Ivan, CollettivO
CineticO, Opera e Alessandro Sciarroni sono gli artisti con cui Iperscene 3 dialoga, mediante una
struttura dai limpidi contorni (per ciascuno sono proposte immagini di
spettacoli-chiave, biografia, teatrografia e intervista, seguite da un approfondimento
che assume di volta in volta una fisionomia peculiare). Il maggior merito del volume
è quello di affrontare visioni sceniche proteiformi e complesse senza ridurne
la densità e, al contempo, restando limpidamente estroflesso: ciò è reso
possibile da un’attitudine curatoriale che, basandosi su solide basi teoriche, affonda
lo sguardo nella materialità della scena contemporanea. Chiude il volume un
breve, luminoso saggio di Paolo Ruffini dal titolo emblematico (L’inefficacia della performance), a problematizzare
con ulteriori interrogativi e aperture ciò di cui si ha testé raccontato. Chapeau.
Michele Pascarella
Hystrio 1.2018:
Recensione di Casa del Popolo del Teatro dell'Argine, p. 78.
Una
comunità intorno al teatro
CASA DEL POPOLO, testo Nicola Bonazzi. Regia Andrea Paolucci.
Da un'idea di Andrea Lupo. Con Micaela Casalboni, Giovanni Dispenza, Andrea
Lupo. Scene Carmela Delle Curti. Aiuto regia Mattia De Luca. Prod. Teatro
dell’Argine, SAN LAZZARO DI SAVENA (BO) in collaborazione con il Teatro delle
Temperie, CALCARA (BO).
Sembra un omaggio a Leo de
Berardinis il nuovo, bellissimo spettacolo del Teatro dell’Argine. Del grande
uomo-teatro campano, innanzi tutto, nel testo risuona un’analoga sensibilità politica,
nel senso che concerne la polis: non
è certo un caso che il gruppo di stanza a pochi chilometri da Bologna nei mesi
scorsi sia balzato agli onori delle cronache teatrali per Futuri Maestri, visionario progetto che ha coinvolto centinaia di
giovanissimi cittadini. Di quell’utopica esperienza, a suo modo figlia della non-scuola del Teatro delle Albe, in Casa del Popolo risuona l’identica
ricerca di un teatro che, come per Leo, sia (ri)costruttore di comunità. Le
parole di Nicola Bonazzi chiedono di essere lette a voce alta, in tutta
evidenza scritte avendo ben presente il pubblico a cui si rivolgono: come non
pensare all’idea, più volte espressa da de Berardinis, di teatro come «tecnica
conoscitiva dell’incontro» tra attore e spettatore? Di attori in Casa del Popolo ce ne sono tre, a dar
voce e corpo a un copione che con magistrale sensibilità ritmica intreccia
didascalie e discorsi diretti, cadenze vernacolari e raffinatezze linguistiche,
Brecht e Piero Manzoni. I tre comprimari lasciano affiorare, con solida sapienza
artigianale, una ridda di tipi:
comici e malinconici, evanescenti e terrigni, peculiari e archetipici, che una regia misurata
intreccia con precisa chiarezza. Abitano una scena che per stilemi evoca
pienamente il teatro dialettale emiliano romagnolo: un tavolo, tre sedie e una
porta di legno sul fondo. Null’altro. Come non ricordare il Teatro Popolare di
Ricerca evocato da de Berardinis? O, ancora, certi caratteri incarnati dal
corregionale Luigi Dadina? La parabola tracciata nei cento anni nei quali la
vicenda si svolge (da un secolo fa ad oggi è l’arco temporale in cui la nostra
società è trasdotta, qui), declina verso un progressivo abbruttimento: un noi che diventa io. Su tutto «una nostalgia per una vita altra, da rivendicare poi nel quotidiano». Come direbbe Leo.
Michele Pascarella
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Recensione di L'emozione del pudore di Massimiliano Civica, p. 81.
I maestri di
Massimiliano Civica
L’EMOZIONE DEL PUDORE,
conferenza-spettacolo di e con Massimiliano Civica. Con la proiezione di tre
video di Orson Wells, Nina Simone, Ettore Petrolini.
Fare teatro con sé stessi, di sé stessi e del teatro stesso: un’operazione
che in altri casi potrebbe risultare autarchica ai limiti dell’asfissia nelle
mani -e nelle parole- di Massimiliano Civica diviene occasione di appassionata
e appassionante interrogazione alla conoscenza e all’intelligenza. Detto
altrimenti: di cultura. In quaranta densi e al contempo
leggiadri minuti Civica utilizza tre frammenti video (di Orson Wells, di Nina
Simone e di Ettore Petrolini) per raccontare con partecipe precisione «tre modi
di emozionare con pudore». E lo fa, direbbe Ennio
Flaiano, «con quella pacata amara indifferenza dell’attore che conosce i polli
della sua platea»: in questo Civica è un maestro. Così come lo è nella
costruzione del testo verbale: stratificato e prismatico in ogni singolo
passaggio, acrobatico nello sviluppo drammaturgico complessivo, a procedere per
salti, scatole cinesi, ritorni, entrate e uscite dallo sviluppo diegetico, con costanti
incursioni nella Storia del Teatro del Novecento, che costituisce il principale
nutrimento e orizzonte di senso. A proposito. Il corrispettivo sanscrito
del termine “Maestro” è letteralmente «colui che disperde le ombre»: questo è esattamente
ciò che fa Civica, da molti considerato un maestro d’attori, scrutando e descrivendo con
microscopica, finanche anatomica precisione i materiali proposti. L’attenzione di
questa conferenza-spettacolo, formato ibrido già più volte praticato
dall’artista-studioso romano a partire da richieste ricevute da Festival e
rassegne (in questo caso Contemporanea, a Prato), è prioritariamente rivolta
alla reale possibilità comunicativa e relazionale degli atti artistici analizzati:
«Lei sta lavorando per un tu», commenta a proposito di Nina Simone, per
esempio. Lo sguardo è divertente e divertito, personale e distaccato, politico e poetico. Chapeau.
Michele Pascarella
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Recensione di Giselle di Dada Masilo, p. 95.
La Giselle
muscolare di Dada Masilo
GISELLE, coreografia Dada Masilo. Musica Philip Miller. Disegni William Kentridge. Assistente alla regia David April. Luci Suzette le Sueur. Con Dada Masilo, Kyle Rossouw, Tshepo Zasekhaya,
Llewellyn Mnguni, Liyabuya Gongo, Khaya Ndlovu, Thami Tshabalala, Thabani
Ntuli, Thami Majela, Nadine Buys, Zandile Constable, Ipeleng Merafe.
Non nuova alla rivisitazione di rinomati titoli del repertorio ballettistico
internazionale, da Swan Lake a Carmen, la celebrata coreografa
e danzatrice di Johannesburg ha proposto in prima nazionale a Romaeuropa Giselle: apogeo, insieme a La Sylphide, del
balletto romantico. Di quella tradizione la riscrittura coreografica di Dada
Masilo riprende a piene mani la valorizzazione del “colore locale”, ovvero di
immaginari esotici che il pubblico può e vuole riconoscere con facilità. In
questo caso, ça va sans dire, il
riferimento è la cultura afro: musica percussiva, piedi nudi, bacino
basso in costante relazione con la terra, grande espressività cinetica e vocale
dei dodici (bellissimi) artisti in scena. La coreografia è intessuta di
sincroni, eseguiti con scattante precisione, nei quali sovente si innesta un
elemento altro: come nel balletto
romantico, ancora, a tratti la funzione del corpo di ballo è quella di far
risaltare, per differenza, il pregio del soggetto principale. Nell’affrontare
un ruolo che fin dai tempi del debutto (Parigi, 1841, protagonista Carlotta
Grisi) rappresenta un arduo banco di prova poiché richiede al contempo
temperamento, capacità espressive e una straordinaria capacità tecnica, in
questo allestimento la protagonista Dada Masilo dimostra innegabile abilità. Proprio
in ciò si manifesta, paradossalmente, il maggior limite dello spettacolo: tutti
gli interpreti, Masilo in primis,
sono sorprendenti per maestria e vigore, ma l’intera macchina spettacolare pare
voler, senza posa e prioritariamente, (di)mostrare tale perizia. Nel colorato,
vitalistico articolarsi di questa Giselle,
Masilo si pone come paladina vendicatrice «contro tutte le violenze sulle
donne»: con attitudine muscolare lo spettacolo avvicina senza vero
approfondimento, ad usum populi, un
tema tanto spinoso e attuale. Finanche, purtroppo, di moda.
Michele Pascarella
Hystrio 4.2017:
Recensione di Two Playful Pink di Yasmeen Godder, pp. 61-62.
Yasmeen
Godder: fare e rifare la danza
TWO PLAYFUL PINK, coreografia Yasmeen
Godder. Consulente artistico Itzik
Giuli. Interpreti creative Yasmeen
Godder, Iris Erez. Interpreti Francesca
Foscarini, Dor Frank. Musica Gyorgy
Ligeti, PJ Harvey, Ran Slavin. Costumi Ilanit
Shamia. Disegno luci Jackie
Shemesh.
Ripresa,
ricostruzione, reinvenzione: le
vie attraverso cui la memoria di uno spettacolo di danza del passato –lontano o
vicino che sia– riesce a rendersi visibile in un nuovo atto performativo
trovano una molteplicità di percorsi. Nel panorama italiano degli ultimi anni
il lavoro più intenzionale, in tal senso, è stato svolto da Marinella
Guatterini attraverso il progetto RIC.CI
Reconstruction Italian Contemporary Choreography. Anni Ottanta-Novanta. Nella
medesima traiettoria si può forse inscrivere Two Playful Pink, duetto che nel 2003 impose Yasmeen Godder sui
palcoscenici di mezzo mondo e che ora viene proposto in una ripresa, presentata
in prima europea al Festival B.Motion di Bassano del Grappa, che vede in scena Francesca Foscarini e Dor Frank (lo
spettacolo originale era interpretato dalla stessa Godder insieme a Iris
Erez). Two Playful Pink, pur
soffrendo di qualche lungaggine e di alcune reiterazioni forse eccessive, è
prova di un immaginario peculiare di assoluto interesse. Il dispositivo
coreografico è intessuto di proteiformi soluzioni a terra secondo ardite elaborazioni dalla
tecnica contact, che brilla vitale
tra guizzi e sospensioni, balzi e stop improvvisi, contorsioni e sincroni. L’apparente
levità di questa proposizione (a partire dal titolo) è bilanciata, per estro
della coreografa e maestria delle interpreti, da atmosfere raggelanti e
precisissimi sfasamenti, a muovere la comunicazione su un piano altro. Fra due monitor posti ai lati del
palco la scena, spoglia e bianca, accoglie le danzatrici, sollecitate dallo
sguardo del pubblico all’esibizione, finanche alla sovraesposizione di sé. Two Playful Pink è suddiviso in tre
sezioni: la prima, luogo dell’eccesso e dell’insensatezza, della smaccata
finzione e della sguaiata seduzione, lascia spazio a un reticolo di prese e
appoggi, contatti e intrecci accompagnati da musiche apparentemente orecchiabili.
Sul finale, dopo essersi liberate da enormi seni finti (istanze
neo-femministe?), le danzatrici intraprendono, in un progressivo crescendo, una
corsa circolare attorno alla scena vuota, che un po’ alla volta rimane al buio:
resta solamente il rumore dei piedi, che inesorabili procedono verso qualche
luogo sconosciuto. E noi, con loro.
Michele Pascarella
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Recensione di Sons of Sissy di Simon Mayer, p. 62.
La pars destruens di Simon Mayer
SONS OF SISSY, coreografia Simon Mayer. Danzatori Matteo
Haitzmann, Simon Mayer, Patric Redl, Manuel Wagner. Musica Simon Mayer. Strumenti
speciali Hans Tschiritsch. Scene
e costumi Andrea Simeon. Luci Martin
Walitza, Hannes Ruschbaschan. Consulente
artistico Frans Poelstra.
«La tradizione è custodia del fuoco, non culto delle ceneri»: pare stare
con il connazionale Gustav Mahler l’austriaco Simon Mayer
nell’affrontare il repertorio folcloristico della sua terra, tra danze tirolesi
e yodel. In apertura di Sons
of Sissy, che tematicamente e stilisticamente riprende e amplia in
forma di quartetto il precedente assolo SunBengSitting, quattro
eclettici performer con fisarmonica, contrabbasso, violini, strumenti a fiato e
campanacci eseguono semplici melodie folk delle campagne
dell’Austria del nord, alternate a brani della medesima provenienza cantati a
cappella. Attraverso il progressivo inserimento di suoni dissonanti e note
tenute, l’esperienza acustica offerta allo spettatore diviene un po’ alla volta
meno pacificata. Arriva la danza: rotazioni sul proprio asse e nello spazio, passi
sonori che ritmano in controtempo il disegno coreografico, a scarnificare le figurazioni
di matrice popolare che ne costituiscono l’ossatura. Come da tradizione,
appunto, la danza è dimostrativa ed estroflessa, strutturalmente seducente. L’atmosfera
gradualmente cambia: i passi di danza divengono lotta e spoliazione. I quattro,
nudi, ricominciano a suonare e a eseguire le già note coreografie: come non
pensare agli ebrei nei campi di concentramento, o a certe figure di Chagall?
L’abbraccio fra due uomini nudi (pare un omaggio a The
power of theatrical madness di Jan Fabre) diviene
danza in cerchio. Respiri affannati costituiscono
partitura sonora, ritmica, eseguita in proscenio. Il folk dell’inizio è definitivamente
smembrato, tra urla, processioni con spargimento di incenso, crolli e balzi
improvvisi. Sul finale, nel buio, un ennesimo piccolo canto a cappella: flatus vocis, suono che cura.
Michele Pascarella
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Recensione di The Burnt Room di Noa Zuk e Ohad Fishof, p. 62.
C’è
confusione, nella Burnt Room
THE BURNT ROOM, coreografia Noa
Zuk & Ohad Fishof. Danzatori Carmel
Ben Asher, Kelvin Vu. Musica e testo Ohad Fishof. Costumi Eri
Nakamura. Lighting Dani
Fishof. Testo aggiunto Communication di Allan Kaprow.
The Burnt Room, presentato in prima nazionale al Festival
B.Motion di Bassano del Grappa, pare dedicato in tralice al creatore dello
happening Allan Kaprow: oltre a una piccola citazione testuale, del celebrato artista
americano lo spettacolo di Noa Zuk & Ohad Fishof riprende l’ibridazione dei
linguaggi, la sensibilità al rapporto fra ambiente e azione che lo attraversa
nonché la proteiforme attivazione del pubblico, in questo caso posizionato
sui quattro lati dello spazio scenico a costituire occasione e al contempo confine
dell’azione in atto. Al centro due giovani danzatori. In un angolo, su un basso
tavolino, i due autori creano dal vivo la ritmica, suadente partitura sonora intessuta
di brani cantati da Fishof in stile crooner, vigorosi
vocalizzi di Zuk e
frammenti testuali di varia provenienza. La composizione coreografica è
geometrica ed elementare: costituita di linee, corse, rotazioni e circolarità
accoglie, nell’algida trama cinetica imbastita dai danzatori, un ordito di incursioni iper-espressive dei due autori,
che di tanto in tanto abbandonano la «postazione sonora» da loro abitata con esibita
rilassatezza. The Burnt Room propone
un’articolazione costantemente in bilico fra l’intenzionale, avanguardistico
rifiuto di ogni logica data e il gusto dell’invenzione fine a se stessa. Se è
forse in parte manchevole una chiarezza di fondo rispetto alla struttura dello
spettacolo (che a tratti pare porsi come pura «forma in movimento», a tratti
come «catalogo di possibilità»), The
Burnt Room ha il merito di proporre un’esperienza estetica inusuale, rispetto
a ciò che è normalmente dato vedere sui nostri palcoscenici. Infine: incontrare
il mistero, la potenza e la grazia della danzatrice Carmel Ben Asher è qualcosa per cui occorre,
profondamente, ringraziare.
Michele Pascarella
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Recensione di Goodnight, Peeping Tom di Chiara Bersani e di The Olympic Games di Chiara Bersani e Marco D'Agostin, p. 67.
Il
teatro etimologico di Chiara Bersani e Marco D’Agostin
|
The Olympic Games - foto di Luca Del Pia |
GOODNIGHT, PEEPING
TOM, ideazione e creazione Chiara Bersani. Azione Chiara
Bersani, Marta Ciappina, Marco D’Agostin, Matteo Ramponi. Consulenza
drammaturgica/ disegno luci Luca Poncetta. Prod. Associazione Culturale
Tenuta dello Scompiglio (LU) con il sostegno di Gender Bender
Festival (BO), Associazione Culturale Corpoceleste_C.C.00#, DanceB
(MI) e THE OLYMPIC
GAMES, di Chiara Bersani e Marco D’Agostin. Con Chiara Bersani,
Marta Ciappina, Marco D’Agostin, Matteo Ramponi e un gruppo di giovani
danzatori della città. Musica originale Pablo Esbert Lilienfeld. Inno della
cerimonia di chiusura Hani Jazzar. Co-creazione cerimonia di chiusura Luca Poncetta.
Progettazione cerchi olimpici Paola Villani. Mentoring Igor Dobričić.
Co-produzione VAN, K3 Tanzplan Hamburg, all’interno del progetto Together
Apart, finanziato da German Federal Cultural Foundation. Co-prodotto
nell’ambito del progetto europeo Be SpectACTive! sostenuto da
CapoTrave/Kilowatt, Tanec Praha, Teatrul National Radu Stanca Sibiu, Bakelit
Multi Art Center Budapest, Domino Zagreb, York Theatre Royal, Lift London.
Le
due nuove proposizioni performative di Chiara Bersani recuperano e incarnano un
senso «etimologico» del teatro, inteso come luogo dello sguardo e della visione:
entrambe, pur nella diversità dei meccanismi di coinvolgimento dello
spettatore, si (pro)pongono come esperienza nella quale, per dirla con Hans-Thies
Lehmann, «l’aspetto dominante diventa
il face to face, la situazione in atto». Ciò è particolarmente evidente,
e rischioso, in Goodnight, peeping Tom,
accadimento costituito «unicamente» da un gioco di
sguardi e seduzioni silenziose fra le quattro persone in scena e i cinque spettatori: meccanismo relazionale che,
se condiviso, può accendere immaginari proteiformi, ma che rischia altresì di
risultare posticcio, portando a emersione il carattere finzionale di una
relazione che, all’opposto, si vorrebbe «performativamente» autentica: «I
Latini dissero persona» ricorda e
sintetizza il Vocabolario «la maschera di legno portata sempre sulla scena
dagli attori nei teatri dell’antica Grecia, nella quale i tratti del viso erano
esagerati perché meglio potessero essere rilevati dagli spettatori». Rinunciando
a qualunque elemento riconoscibile (testo, coreografia, fabula, musiche, luci, costumi) Goodnight, peeping Tom è un
esempio di «teatro senza spettacolo» in cui
gli artisti in scena, lungi dal proporsi come «oggetto
di ammirazione», funzionano da attivatori di un percorso estetico, finanche
erotico, che ha origini antiche: come non pensare, ad
esempio, alla performance Imponderabilia
realizzata da Marina Abramović e Ulay nel 1977? Non c’è nudità, in Goodnight, peeping
Tom, ma l’esperienza vissuta può essere altrettanto perturbante. Istituisce
una prossemica più convenzionale The Olympic Games,
spettacolo colorato e dolente creato insieme a Marco D’Agostin che pazientemente compone i silenzi,
le immobilità, la postura dei quattro corpi in scena e le minime sequenze
performative nello spazio vuoto: il lento incedere di Bersani su un colorato tapis
roulant
tra sudore, sguardi dritti e sorrisi prepara il terreno alla danza di Ciappina,
che progressivamente emerge tra fiotti e sbruffi, slanci, inarcamenti e
sussulti; il semplice stare (a braccia tese verso l’alto) di
D’Agostin introduce quello (sfibrato, madido) di Ramponi. Minuscole avventure
dello sguardo, che lo sguardo (quello incrociato dei performer, quello del
pubblico) feconda e fa esistere: realtà affatto fisiche che, se recepite come
“segni”, producono senso senza essere concettualmente definibili.
Michele Pascarella
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Recensione di Animula di Daria Menichetti, p. 74.
Il
Realismo magico di Daria Menichetti
ANIMULA, di e con
Daria Menichetti. Disegno luci Luca Poncetta. Paesaggio sonoro Francesco Manenti.
Foley Michele Zanni. Tecnico luci Elena Piscitilli. Prod. Associazione Sosta
Palmizi, AREZZO, con il supporto di Caijka Teatro d'avanguardia popolare,
MODENA.
In bilico fra organico e inorganico, la figura abita
una scena al contempo mobile ed evocativa di una disarmante fissità. Una
cassetta di plastica rossa, un ventilatore, una grande poltrona impolverata, un
parallelepipedo di legno e poco altro funzionano da porteur di questa danzatrice perturbante, le cui proteiformi
esperienze professionali affiorano per lacerti senza tuttavia offuscare un
segno pienamente personale. Primari sono il carattere robotico del costrutto coreografico
e il modo in cui esso si relaziona allo spazio circostante, che accoglie e simultaneamente
dà luogo al movimento. Diagonali, angoli e rette parallele si avventurano
nell’ambiente grazie al precisissimo fare della protagonista, a tessere una tersa
e minuziosa trama di dettagli dall'effetto straniante. «Ben truccata, filo di perle al collo, come una statuetta di cera». O come
un robot: corpo-macchina nel quale la coreografia funziona come esoscheletro necessario
all’esistenza in vita, per una danza molecolare occupata più ad ascoltare ciò
che accade in scena che a (di)mostrarsi. Il limite principale di Animula pare essere il tracciato
coreografico complessivo. Forse a causa dell’autorialità individuale del lavoro
(e dunque della mancanza di un vero occhio esterno) lo spettacolo fatica a
trovare una sintesi dei diversi pur magnetici quadri, rendendo lo sviluppo a
tratti un po’ confuso: ne è un esempio la moltiplicazione dei finali, con la tipica
reiterazione della sequenza “creazione di
immagine lirica-enfatizzazione della stessa-sospensione”. A parte ciò
(caratteristica comune a molti che, per motivi produttivi o per scelta, si
trovano «a far tutto da sé»), Daria Menichetti è certamente, grazie
all’innegabile maestria tecnica e al peculiare immaginario poetico, una
«danzautrice» da tenere d’occhio.
Michele Pascarella
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Recensione di Via da noi di Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini, pp. 75-76.
Il
teatro rasico di Tovaglia a Quadri
VIA DA NOI, di Andrea Merendelli e Paolo Pennacchini. Regia di Andrea
Merendelli. Con diciassette abitanti della città di Anghiari. Assistenza
tecnica Stefan Schweitzer. Oggetti di scena e costumi Armida Kim, Emanuela
Vitellozzi. Appunti musicali ricomposti da Mario Guiducci. Prod.
Associazione Culturale Tovaglia a Quadri, ANGHIARI (AR).
La nozione di
«teatro rasico» proposta da Richard Schechner pare appropriata per sintetizzare
un’attitudine a cui da ventidue anni Merendelli e Pennacchini danno sostanza:
proporre un’esperienza di fruizione basata non solo sul vedere-udire, ma su una
partecipazione propriamente «estetica» (aggettivo
che, vale ricordarlo, etimologicamente rimanda alla conoscenza attraverso tutti i sensi). Nel teatro classico indiano, suggerisce lo studioso americano, sono
prioritari i termini bhava,
“emozione”, e rasa, “sapore”, per un’arte
volta a far assaporare le emozioni alla stregua di cibi (e insieme a essi):
parimenti nel nuovo spettacolo di Tovaglia a Quadri, che gli autori definiscono «cena toscana con una storia da raccontare in quattro portate», la
componente gastronomica è parte consustanziale della proposta artistica, con tanto di annuncio delle portate
ripetutamente inserito nella drammaturgia testuale. Via da noi evidenzia, tra denuncia civile e aneliti autarchici,
alcuni stilemi tipici di certo teatro non professionale: tipizzazione dei personaggi,
gestualità illustrativa, ritmo vivace e senza sostanziali variazioni,
predominanza delle comicità «di battuta» su quella «di situazione», reiterati
riferimenti a vicende e personaggi ultra-locali che il pubblico di riferimento solitamente
conosce. Il maggior merito di questo esempio di teatro partecipativo (come non pensare al vicino Teatro Povero di
Monticchiello?) sta forse nel paziente lavoro di ricerca d'archivio e di ascolto delle testimonianze degli
abitanti, con i cittadini-attori che si fanno «menestrelli delle loro stesse
radici»: una lungimirante operazione culturale, da sostenere.
Michele Pascarella
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Recensione di Leila della tempesta di Alessandro Berti, pp. 81-82.
Leila della tempesta, sulla Via della Seta
LEILA DELLA TEMPESTA,
di Ignazio De Francesco. Regia Alessandro Berti. Con Alessandro Berti e Sara
Cianfriglia. Spettacolo realizzato in collaborazione con Associazione Ca’ Rossa
e il sostegno di UNEDI – Ufficio Nazionale Ecumenismo e Dialogo Interreligioso.
Prod. Casavuota, BOLOGNA.
La quinta edizione del Festival
I Teatri del Sacro ha accolto e sostenuto il debutto del nuovo spettacolo di
Alessandro Berti: un contesto pienamente consustanziale a un’opera che tratta
di spiritualità, etica e religioni con sguardo largo e un’attitudine alla
pluralità fenomenologicamente salutare. Lo spettacolo è meritevole di
attenzione per almeno due motivi. Il primo. Dando corpo e voce a un’idea
propriamente «omerica», Leila della
tempesta identifica la bellezza con lo «splendore del sensibile», con la
rappresentazione di un frammento di mondo reale e luminoso: la storia è tratta
da un libro di Ignazio De Francesco, frutto di molti anni di lavoro -tuttora in
corso- di un visionario monaco dossettiano al carcere di Bologna coi detenuti arabi,
a intrecciare Islam e Cristianesimo, Costituzioni democratiche e Primavere
arabe. Il testo (riscritto da Berti) narra un’esperienza ammirevole e
commovente: una sorta di rinnovata «Via della Seta» atta a favorire concreti e
sempre più necessari scambi di cultura fra umani. Il punto di vista proposto
(chi sono le vittime? chi i carnefici?) varia in continuazione, ponendo lo
spettatore in una condizione di salutare spaesamento. Secondo motivo di interesse.
La precisa maestria dei due interpreti e del disegno registico. In uno spazio
minimale (un tavolo, due sedie, pochissime luci pressoché immobili), Alessandro
Berti e Sara Cianfriglia sono figure esatte e complementari: Leila la detenuta,
l’Altro l’assistente spirituale; Leila un fiume in piena di parole e accalorata
espressione, l’Altro in ascolto sottile; Leila indurita, l’Altro incoraggiante.
I due sfaccettati personaggi sono intessuti di pause e controtempi, variazioni
di posture e micro-azioni. Parallelamente la regia (dello stesso Berti) articola
una magistrale alternanza di vuoti e pieni, moto e quiete, parola e silenzio,
estroflessione e ripiegamento introspettivo. Leila della tempesta è un minuscolo, appartato, semplice,
consolante capolavoro. Dire grazie, almeno.
Michele Pascarella
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Recensione di Dadaselfie di TeatriAlchemici, p. 86.
TeatriAlchemici,
fra teatro sociale e ricerca linguistica
DADASELFIE, testo e regia Ugo Giacomazzi e Luigi Di
Gangi. Assistente alla regia Simona
Stranci. Con Chiara Siragusa,
Mariangela Collesano, Simona Mirelli, Giorgia Mirelli, Alberto Esposito, Matteo
Richiusa, Salvatore Leone, Filippo Talluto, Paolo Pecoraro, Vincenzo Sicola,
Ivan Dragotta e con Marco
Canzoneri, Valentina Apollone. Musiche
originali Fabio Rizzo. Luci Michele
Ambrose. Scene e costumi TeatriAlchemici.
Prod. Teatro Biondo, PALERMO, in collaborazione con TeatriAlchemici
e Indigo 800A Records.
Dadaselfie, nonostante il titolo scanzonato dal sapore vagamente
pop, è uno spettacolo di complessa concezione, nuova emersione performativa di
un pluriennale percorso che intreccia efficace teatro sociale e rigorosa
ricerca linguistica. In scena un’umanità traballante e traboccante (di segni e
di voci, di bisogni e allegria): undici giovani attori con Sindrome di Down con
i quali la Compagnia lavora continuativamente da un decennio. Non si pensi a un
semplice, seppur encomiabile, esito di laboratorio: i due registi allestiscono
un lavoro che, attraverso il montaggio di scene giustapposte più per sensibilità
ritmica che per intento narrativo o didattico scivola senza posa, come una
biglia posta su un piano basculante, dall’ingenuo intrattenimento al più crudo immaginario,
dall’assennato allo sfrenato, dal prevedibile all’inaudito, dall’espressivo
all’espressionista. Parrucche e magliette colorate, alcuni testi detti al
microfono, composizioni dinamiche di corpi nello spazio vuoto: lo stile ricorda
certe proposizioni di gusto nord europeo (come non pensare a Disabled
Theater
di Jérôme Bel & Theater Hora?), con il correttivo di
un calore mediterraneo, nella qualità delle relazioni artistiche instaurate, che
traspare da ogni gesto, figurazione, parola. Dadaselfie è frutto di un’attitudine felicemente maieutica
e spigolosamente libertaria: fa affiorare a fiotti il tema complesso,
potenzialmente rischioso, delle pulsioni erotiche delle persone disabili. Lo fa
con gli strumenti, la grazia e la capacità simbolica del medium teatrale:
memorabile l’evocazione della celeberrima scena di The Power of
Theatrical Madness di Jan
Fabre nella quale due ragazzi, nudi e coronati, eseguono un sensuale ballo di
coppia. Su tutto, salvifica, la gioiosa follia di marca dadaista che lo
spettacolo altresì omaggia fin dal titolo: un fare che vale per se stesso,
senza messaggi o insegnamenti da veicolare se non quelli testimoniati dal
(semplice, coraggioso) fatto di esistere. E di resistere.
Michele Pascarella
Hystrio 3.2017:
Recensione di Muoio come un paese di Francesca Ballico, pp. 79-80.
Muoio come un paese, tragedia
greca
MUOIO
COME UN PAESE, di Dimitris Dimitriadis. Traduzione Barbara
Nativi e Dimitri Milopulos. Interpretazione e regia Francesca
Ballico. Musiche Antonia Gozzi. Disegni Carlo Pastore - Studio Elica. In
residenza Cantiere Moline per ERT - Arena del Sole. In
collaborazione con Centro La Soffitta - Università di Bologna, ATER.
Organizzazione Maurizio Sangirardi. Prod. Associazione Ca' Rossa, BOLOGNA.
Un intento virtuoso e lungimirante ha
intrecciato alcune realtà produttive e accademiche di area bolognese per dare visibilità
e corpo scenico a Muoio come un paese di Dimitris Dimitriadis, autore
nato a Salonicco nel 1944 tradotto e rappresentato in molte
lingue (anche al Teatro dell'Odéon di Parigi), ma in Italia forse non sufficientemente noto.
Affiancato e completato da una densa tavola
rotonda curata dalla storica del teatro Laura Mariani, lo spettacolo di Francesca Ballico ha messo in scena un
testo, pubblicato nel 1978 a pochi anni dalla fine del «regime dei colonnelli», che anticipa ed evoca l’attuale crisi sociale ed economica greca. Questa messinscena potrebbe forse
essere fruita come radiodramma: al centro è la voce, sia in quanto veicolatrice
di parola e linguaggio (entità semantica)
che in quanto suono, al di qua e al di là del significato (entità vocalica). Muoio come un paese si pone come teatro prioritariamente
dell’ascolto nel quale, si potrebbe dire con Jean-Luc Nancy,
«ascoltare è essere tesi verso un senso possibile e di conseguenza non
immediatamente accessibile». In questo allestimento, che riprende alcuni temi e stilemi del teatro
greco classico, Francesca Ballico si pone come una sorta di novella Antigone: sola
contro tutto e tutti, con veemenza «esprime» un vortice di sentimenti dalle tinte tragiche (rabbia, disperazione,
nostalgia, …). Ed è proprio un eccesso recitativo, finanche di «dolorismo» à la Duse, il maggior limite di questo spettacolo: un costante «troppo
pieno» che ne rende innaturalmente faticosa la fruizione. Grava su Muoio come un paese, inoltre, un’assoluta
mancanza di ironia, termine da
intendersi non tanto come benefico sghignazzo, forse fuori luogo in una
tragedia, ma -socraticamente- come presa di distanza fra sé e ciò di cui si
parla: se una cosa la modernità (con tutti i «post» del caso) ha definitivamente sancito è il
salvifico -nell’arte come nella vita- evitare di prendersi troppo sul serio.
Altrimenti è una tragedia.
Michele Pascarella
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Recensione di Giuramenti di Teatro Valdoca, p. 80.
Giuramenti, dal laboratorio
del Teatro Valdoca
GIURAMENTI, di Mariangela Gualtieri. Regia, scene e luci Cesare Ronconi. Drammaturgia
del corpo Lucia Palladino. Con Arianna Aragno, Elena Bastogi, Silvia Curreli, Elena Griggio, Rossella
Guidotti, Lucia Palladino, Alessandro Percuoco, Ondina Quadri, Piero Ramella,
Marcus Richter, Gianfranco Scisci, Stefania Ventura. Guida del
canto Elena Griggio. Proiezioni Ana Shametaj. Costumi Cristiana Suriani. Costruzioni in legno Maurizio Bertoni. Scultura in
ferro Francesco Bocchini. Prod. Teatro
Valdoca, CESENA.
Si inscrive in una linea tutta novecentesca che pone la pedagogia al
centro del proprio fare arte, la nuova opera corale del Teatro Valdoca: Giuramenti si (pro)pone come
affioramento tangibile di un’esperienza che ha coinvolto dodici energici
ragazzi, incontrati in un anno di seminari, in tre mesi di residenza produttiva
a L’arboreto - Teatro Dimora di Mondaino. Questo luogo appartato e accogliente,
e il bosco intorno, sono stati la culla di una creazione, intessuta di canti provenienti da
diverse tradizioni del Pianeta, composta secondo modalità tipicamente
laboratoriali: corse in cerchio, passaggi coreografici al rallentatore, aggregati
di corpi immobili, elenco di variazioni in reazione a un medesimo stimolo, scene
corali dal sapore tragico (a tratti funereo), testi detti con esibita
«intensità». Se Giuramenti non
rappresenta in alcun modo una novità rispetto a temi e stilemi del gruppo
cesenate (e ciò potrebbe far sorgere alcune domande, in considerazione del lungo,
protetto tempo di ricerca e creazione), l’elemento di maggior interesse pare
essere la capacità -per nulla scontata- di Cesare Ronconi di spezzare i vincoli
dei testi poetici di Mariangela Gualtieri (in parte scritti durante le prove e
in parte recuperati, in ogni caso il punto di forza di ciò che ci è dato vedere),
portando in piena luce un intento propriamente estetico (termine da
intendersi come l’opposto di anestetico, non di inestetico). Vale forse considerare
questo esempio di teatro rituale non come opera d’arte, ma come «opera dell’arte»: un fatto che persegue la trasformazione di
chi lo compie, l’attenzione
sottile, l’incontro fra umani. «Il bosco ci ha
lavorato in profondità facendo di noi una comunità teatrale animale», scrive Gualtieri nelle note introduttive: come non
pensare al «parateatro» di Jerzy Grotowski? Analogamente a quella fase di ricerca
del regista polacco, anche in Giuramenti il
punctum, per dirla con Barthes, paiono
essere i partecipanti: chi l’opera la fa, non chi la vede.
Michele Pascarella
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Recensione di Sleep Technique di Dewey Dell, p. 97.
Venire al mondo nella
caverna di Dewey Dell
SLEEP TECHNIQUE, ideazione Dewey Dell -
Agata, Demetrio e Teodora Castellucci, Eugenio Resta. Con Agata e Teodora
Castellucci, Ivan Björn Ekemark, Enrico Ticconi. Coreografia Teodora
Castellucci. Musica originale Demetrio Castellucci, Massimo Pupillo. Scena e
luci Eugenio Resta. Voce Attila Csihar. Costumi Guoda Jaruševiciute. Con il
contributo dell'archeologa Dominique Baffier. Prod. Dewey Dell, BERLINO.
Nel 1940 Pablo Picasso, appena visitate le grotte di Lascaux
da poco scoperte, mormorò: «Nous n’avons rien inventé». Questo
aneddoto può sintetizzare il maggior pregio e al contempo il più grande limite
del nuovo spettacolo
di Dewey Dell, ensemble di origine cesenate (leggi: Socìetas) da tempo basato a
Berlino. È certo meritevole, in un panorama odierno sempre più privo di memoria, l’intento
di appartenere a una storia che trascende e nutre: Sleep
Technique tenta un dialogo con «quello che ci è
pervenuto dai primi homo sapiens sapiens nella caverna di Chauvet-Pont d’Arc,
scrigno di pitture di 36.000 anni». Lo spettacolo si pone nella traiettoria di una
nascita al mondo, articolando un percorso che,
dal fondo della caverna, progredisce verso l’uscita. Quattro figure entrano ed
escono dalla madre-terra (leggi: un pertugio alla base della scena vuota) con scatti
e rilassamenti, guizzi e sospensioni. Dialettica naturale-artificiale, qui-altrove:
le pitture parietali di cui si nutre Sleep
Technique richiedono la capacità di sporgersi oltre il presente. «Gli animali dipinti non sono lì come è lì la crepa o il
rigonfiamento del calcare» ebbe a dire, in merito, Maurice Merleau-Ponty «ma
non sono neppure altrove». Se è forse vero per altre proposizioni performative
di Dewey Dell, in questo caso pare programmatico: i tracciati sensibili
stimolano l’immaginazione e la memoria chiamandole all’invisibile. L’attraversamento
scenico di queste «menti incorpate» da un punto di
vista concettuale pare pienamente convincente. Si rimane dubbiosi, invece, in
merito al tipo di movimento proposto (che, al di qua e al di là di ogni
considerazione, resta uno degli elementi costitutivi della danza): esso è
troppo simile a quello di lavori che partivano da suggestioni completamente altre. L’inclinazione narcisistica a riflettere
se stessi in qualsiasi cosa si guardi è comune a molti, ma farsi attraversare (e
modificare) dal mondo è (sarebbe) pre-requisito ineludibile di ogni ricerca
artistica.
Michele Pascarella
Hystrio 2.2017:
Recensione di L'arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento di Muta Imago, p. 71.
Il Perec brechtiano
di Muta Imago
L'ARTE E LA MANIERA
DI AFFRONTARE IL PROPRIO CAPO PER CHIEDERGLI UN AUMENTO, opera da camera per un performer, due voci, ensemble ed elettronica.
Regia, scene e luci Claudia Sorace / Muta
Imago. Drammaturgia e assistente alla
regia Riccardo Fazi. Musica Vittorio Montalti. Libretto Giuliano
Compagno tratto da L’art et la manière
d’aborder son chef de service pour lui demander une augmentation di Georges Perec (© Fayard, 2010 - Prima pubblicazione: Editions Hachette Litteratures).
Con Jo Bulitt, Ljuba Bergamelli, Nicholas Isherwood. Icarus
Ensemble diretto da Yoichi Sugiyama. Realizzazione video e
assistente alle scene Maria
Elena Fusacchia. Costumi Jonne Sikkema. Regia del suono Simone Conforti. Prod. Fondazione I Teatri (REGGIO
EMILIA).
Una sola frase
senza punteggiatura lunga sessanta pagine costituisce il caleidoscopico racconto di Georges Perec che Claudia Sorace e Riccardo Fazi di Muta Imago si sono trovati
a mettere in scena, nella forma per loro non usuale di opera da camera, su commissione della Fondazione I Teatri di Reggio
Emilia (una prima versione fu allestita nel 2013 alla Biennale di Venezia con
la regia di Giancarlo Cauteruccio). La surreale vicenda
al centro della quale stanno le mille esitazioni di un impiegato
intenzionato, come da titolo, ad «affrontare il proprio capo per chiedergli un
aumento» è raccontata mettendo in piena evidenza il
trattamento linguistico dei materiali: in questo spettacolo
minimale ed elegante tinte ghiaccio di scene e costumi si intrecciano a
grappoli di note dissonanti, mentre mutevoli corridoi di luce accolgono i geometrici
movimenti nello spazio delle tre generose figure in scena. Ad esse Claudia
Sorace, dimostrando una consolidata capacità di inventare soluzioni per dare plausibile
sostanza visiva a ciò che vuole significare, chiede di «mostrare di mostrare»,
si potrebbe dire stando con Brecht: sulla scia del grande tedesco, forse, la
regista concepisce l’opera non come mero “esercizio di stile” ma, incarnando una
vicenda a metà strada tra quella del John de La folla di King Vidor e le disavventure del nostro ragionier Fantozzi, pone in primo piano il conflitto
tra singolo e società (tra oppresso e oppressore, si potrebbe dire accogliendo
altre categorie di pensiero). Ideologie a parte, l’allestimento ben poco ha a
che fare con l’idea classica di arte come organismo compiuto e autosufficiente:
nell’afasia dell’impiegato che neppure possiede pienamente la lingua per dire
il proprio mondo (come non pensare a Foucault) sta una muta tragedia che,
paradossalmente, si rafforza nei passaggi più ironici (nel senso socratico di
presa di distanza fra sé e l’oggetto di cui si sta trattando). Su tutti, un
breve frammento di testo detto à la
Carmelo Bene: sublime.
Michele Pascarella
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Recensione di LUS del Teatro delle Albe, p. 72.
Teatro delle Albe, mistero
e vertigine della voce
LUŞ, di Nevio Spadoni.
Musica Luigi Ceccarelli, Daniele Roccato. Voce Ermanna Montanari. Live
electonics Luigi Ceccarelli. Contrabbasso Daniele Roccato. Regia Marco
Martinelli. Spazio scenico e costumi Margherita Manzelli, Ermanna Montanari.
Animazione dello sfondo con opere originali di Margherita Manzelli a cura di
Margherita Manzelli, Alessandro e Francesco Tedde. Regia del suono Marco
Olivieri. Disegno luci Francesco Batacchio. Prod. Emilia Romagna Teatro
Fondazione (MODENA) in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro
(RAVENNA).
«C’è una persona viva, gola,
torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre
voci»: si potrebbe introdurre con Italo Calvino l’incontro con LUŞ
(Luce), concerto-spettacolo nel quale Ermanna Montanari dialoga con il
contrabbasso di Daniele Roccato e i live electronics di Luigi Ceccarelli. LUŞ racconta
la vicenda di Bêlda, veggente e
guaritrice delle campagne romagnole di inizio Novecento che mette in atto un
maleficio di morte ai danni di un “pretaccio” colpevole di aver disseppellito
la madre di lei. Al centro della scena sta la voce caleidoscopica di Ermanna
Montanari: è entità semantica, portatrice di parole e linguaggio, e al contempo
entità vocalica, al di qua e al di là del significato. Grida terrose, solidi
borbottii e aspri sussurri rendono materia, ancor prima che fabula, il poemetto
in lingua romagnola scritto ad hoc da
Nevio Spadoni nel 1995. È una voce che trattiene e porta a emersione, come un
setaccio, il “geroglifico di un soffio” di Artaud e la phoné di Carmelo Bene, il “teatro totale” di Meredith Monk e le Litanie di Diamanda Galas. Et ultra. LUŞ non si limita a (ri)mettere in
scena un testo poetico, fa poesia di tutti gli elementi che lo costituiscono. A
partire da quelli sonori: l’espressivo contrabbasso di uno dei più autorevoli
virtuosi contemporanei di quello strumento e l’elaborazione digitale, che in
tempo reale tratta la voce di Montanari e la musica di Roccato allo scopo di
rendere percepibili
le minime variazioni acustiche. Viene da pensare al francese Alfred
Tomatis, là dove riflette sul fatto che «se l’uomo non può udire non può
parlare»: un sillogismo che rimanda alle luminose sperimentazioni novecentesche
attorno al “teatro come azione efficace”, volto a modificare profondamente sia chi
lo fa che chi lo incontra. LUŞ, analogamente, si pone come opera etimologicamente
commovente: fa “muovere insieme”. Verso dove? Verso qualcosa di ineffabile, di vertiginoso.
Ciò a cui l’arte, forse, dovrebbe sempre tendere.
Michele Pascarella
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Recensione di Verso la specie di Claudia Castellucci / Socìetas, p. 89.
La scuola di ballo di
Claudia Castellucci
VERSO LA SPECIE, ballo
della Scuola di movimento ritmico Mòra. Direzione Claudia Castellucci. Musica
Stefano Bartolini. Insegnante coreografo Alessandro Bedosti. Interpreti Sissj
Bassani, Alessandro Bedosti, Benedetta Gianfanti, Tommaso Granelli, René Ramos,
Stefania Rovatti, Federica Scaringello. Prod. Societas (CESENA).
Sette figure vestite di nero
eseguono, in muto dialogo con un tessuto sonoro minimale, un’asciutta
coreografia intessuta di esplorazioni cardinali dello spazio, piccoli salti in
controtempo, rotazioni e falcate, corse leggere e simmetrie, circonferenze e
linee rette. Non mancano passaggi simbolici e bolle narrative. Emergono, nelle
numerose figurazioni circolari, riferimenti al ballo folclorico. Al di là di
ciò che si vede, vale ciò di cui Verso la specie è parte: questo ballo è la più recente emersione performativa di un
complesso, proteiforme sistema didattico consustanziale all’universo poetico,
dunque creativo, di Claudia Castellucci. La scolarca, come preferisce definirsi
l’artista cesenate, in lunghi mesi di paziente, meticoloso lavorio ha creato
con un manipolo di dediti danzatori, partecipanti alla Scuola di movimento ritmico Mòra, una partitura dalla struttura propriamente elementare
alla cui origine stanno «la metrica della poesia greca arcaica e, dal punto di vista
figurativo, il ritmo dei movimenti dei cavalli». È forse possibile considerare Verso la
specie uno degli esiti
contemporanei di una feconda traiettoria che origina dai grandi registi e
coreografi pedagoghi di inizio Novecento: affiora in particolare, sia per
intenti che per stilemi, lo svizzero Émile Jaques-Dalcroze e le ricerche da lui
condotte nella città-giardino di Hellerau attorno alle interazioni fra tempo, spazio ed energia. Qual è il ruolo dello spettatore, in questo “teatro senza spettacolo”? Forse occorre relazionarsi a Verso la
specie come
testimoni, non come pubblico: analogamente agli ultimi approdi della ricerca
grotowskiana, questa opera può agire per induzione, dando la possibilità a chi vi
assiste di sperimentarne in qualche forma gli effetti. Al di là delle
intenzioni dell’autrice.
Michele Pascarella
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Exit, p. 89.
In
morte di Trisha Brown
La coreografa e danzatrice è scomparsa a San Antonio, in
Texas, il 18 marzo scorso, al termine di una lunga malattia. Dopo essersi
formata con Anna Halprin, nel 1961 si trasferisce a New York, dove entra nella fucina
del Judson Dance Theater, collettivo di artisti appartenenti a varie
discipline che rifiutano tanto le convenzioni della danza accademica quanto
quelle della modern dance. In quel
contesto, insieme a Steve Paxton, Yvonne Rainer e Meredith Monk, ripensa
radicalmente le modalità compositive dell’arte coreutica, riviste in chiave
collettiva e impostate sull’improvvisazione e la casualità. Con Paxton,
inoltre, indaga il violent contact, forma
di improvvisazione incentrata sulla ricerca dello scontro tra i corpi e dei
modi per evitarlo. Nel 1970 fonda la Trisha Brown Dance Company, interpretando in
prima persona molte delle sue coreografie. Nei primi anni
Settanta è anche parte della Grand Union, gruppo di artisti autonomi che
pongono in primo piano la messa in evidenza del processo creativo. Tra le
sperimentazioni di quel periodo vale ricordare i cosiddetti Equipment pieces, coreografie che
utilizzano attrezzi per lavorare sulla forza di gravità e sulla percezione del
movimento (il più noto è Walking on the
wall del 1971, in cui i performer, legati a solidi cavi, passeggiano sulle
pareti esterne del Whitney Museum) e Primary
Accumulation del 1972, esito di articolate ricerche sui metodi matematici
di composizione in cui una sequenza di trenta movimenti si costruisce a partire
dal primo, a cui si aggiungono via via gli altri, ricominciando ogni volta da
capo la serie. Trisha Brown crea oltre cento
coreografie dagli anni Settanta al 2011, data di I’m going to toss my arms - if you
catch them they’re yours, sua ultima “novità” come
coreografa (come danzatrice aveva già lasciato nel 2008): lavori inizialmente
adatti anche a performer non allenati, ma che nel corso degli anni esigono
danzatori tecnicamente ben preparati. Collabora per decenni con artisti afferenti
a diverse discipline; fra i molti basti ricordare Robert Rauschenberg e Laurie
Anderson: è del 1983 il loro Set e Reset, considerato
“il manifesto della danza postmoderna”. L’ultima creazione realizzata con Rauschenberg è If you couldn’t see me, del 1994, nella quale danza per
tutto il tempo rivolgendo la schiena al pubblico. Incontra anche il mondo dell’opera: memorabile il suo allestimento
de L’Orfeo di Claudio Monteverdi, del 1998, per il Théâtre de
la Monnaie di Bruxelles. La
sua Compagnia è venuta in Italia per l’ultima volta nel 2014, ospite del
Ravenna Festival, in occasione di un giro d’addio internazionale
intrapreso l’anno precedente a seguito dei gravi problemi di salute
dell’artista. Il programma presentato ha sintetizzato molti degli
attraversamenti della Brown: da proposizioni minimali, matematiche e astratte, create «per indagare il movimento inconscio», a dense coreografie
che la capofila della post-modern dance ha definito «l’apogeo di complessità» del proprio
lavoro.
Michele Pascarella
Hystrio 1.2017:
Recensione di Senza titolo per uno sconosciuto di gruppo nanou, p. 93.
gruppo nanou, l’opera
dell’arte
SENZA TITOLO PER UNO
SCONOSCIUTO, di Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci. Con Sissj Bassani, Rhuena
Bracci e Marco Maretti. Suono Roberto Rettura. Assistenti alla coreografia
Marta Bellu e Rachele Montis. Prod. E / gruppo nanou (RAVENNA) con il sostegno
di L’Arboreto Teatro Dimora di Mondaino, Cie Twain, La MaMa Umbria
International e Cantieri. Con il contributo di MIBACT e Assessorato alla
Cultura della Regione Emilia-Romagna.
È misterioso e
difficilissimo, il nuovo spettacolo del ravennate gruppo nanou: una solida
architettura coreografica che a partire da una fulminante dichiarazione di
poetica di marca esplicitamente artaudiana, «Il corpo è senza organi»,
approfondisce un rigoroso percorso ultradecennale nella direzione dello
svuotamento, della non-identità. Tre dinamiche figure in maglietta e
pantaloncini neri e arancioni abitano una scena tagliata a terra da strisce
bianche riflettenti un set di luci quasi immobile, a creare un’atmosfera
rarefatta, lunare. Rhuena
Bracci, Marco Maretti e Sissj Bassani, con dedizione da officianti, percorrono lo spazio in gruppi che senza posa si compongono e
si disfano in trii, duetti e assolo dalla dinamicità a tratti leggera e
saltellante, a tratti scattante e muscolare. Talvolta si raggelano in tableaux vivants tridimensionali,
assumendo posizioni disegnate secondo linee allungate da arti quasi senza peso:
una ridda di rotazioni, misurazioni, entrate e uscite, stop, piegamenti e
allungamenti che agiscono sullo spettatore per cinestesia, o “empatia muscolare”. Si potrebbe forse qualificare Senza titolo per uno sconosciuto non come
“opera d’arte”, ma come “opera dell’arte”: mettendo in discussione il
convenzionale patto artista-spettatore (nel quale il primo è depositario di una
téchne
che lo identifica agli occhi del secondo), al centro di questa
creazione è posto l’effetto che essa può avere su chi la fruisce. In tal senso
i numerosi rimandi al Novecento (dalla Biomeccanica
di Mejerchol'd alle ricerche di Foregger, dalla danza astratta e antipsicologica di Alwin
Nikolais all’Atletismo affettivo di
Artaud, dalle Antropometrie di Yves Klein alle teorizzazioni di Ėjzenštejn
sull’azione efficace) si condensano e rinnovano in un esempio di “teatro senza spettacolo” che segna la
piena maturità del gruppo ravennate. Scomparendo, questa opera aiuta ad affacciarsi
sull’invisibile, a prestare orecchio all’indicibile: ciò che l’arte dovrebbe
sempre fare, forse.
Michele Pascarella
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Recensione di Aneckxander di Alexander Vantournhout e Bauke Lievens, p. 92.
Aneckxander: le
regole del corpo
ANECKXANDER, di
Alexander Vantournhout e Bauke Lievens. Con Alexander Vantournhout.
Drammaturgia Bauke Lievens. Consulenza drammaturgica Dries Douibi e Gerald
Kurdian. Supervisione Geert Belpaeme, Anneleen Keppens, Lore Missine, Lili M.
Rampre e Methinee Wongtrakoon. Disegno luci Tim Oelbrandt e Rinus Samyn. Musica
Arvo Pärt. Costumi Nefeli Myrtidi e Anne Vereecke. Prod. Not Standing (BELGIO).
Accorgersi della distanza fra come il nostro corpo è e
come la società lo percepisce: ecco, in estrema sintesi, il punto di partenza di questo singolare assolo. Il titolo, Aneckxander, è un gioco di parole,
intraducibile in italiano, che rimanda a un nomignolo affibbiato all’interprete
Alexander Vantournhout a causa del suo
presunto lungo collo (neck = collo, in inglese). L’artista belga, intrecciando
butoh e contorsionismo, assume
senza posa una quantità di posture aliene e indecifrabili: un movimento muscolare e
antiballettistico che compone e scompone con fluidità linee e forme non antropomorfe,
difficilmente riconducibili al già noto. Naturale
vs artificiale: il corpo nudo del performer progressivamente viene accessoriato
di collare, guantoni da boxe e scarpe a zeppa alta, orpelli che servono a
camuffare, e al contempo a enfatizzare, alcune caratteristiche somatiche. Su
minimali, malinconiche composizioni di Arvo Pärt, riprodotte con una pianola elettrica in scena,
Vantournhout ibrida modi e mondi tra piroette
e immobilità, disequilibri e segmentazioni, tonfi a terra e rotazioni. È una
danza che, ben lontana dal porsi come simbolo o psicologia, vale nel qui e ora
della propria inclassificabile oggettività. Una pacata e al contempo implacabile serie di allungamenti
e contorsioni evocano nel “corpo teatro” del giovane e promettente Vantournhout
una delle Figure di certi quadri di Bacon: come quelle, anche il suo stare
rende sensibile, per dirla con Deleuze, «una specie di tragitto, una
specie di esplorazione compiuta dalla Figura in quel luogo o su se stessa». A Gender Bender, Festival bolognese
che da anni presenta gli immaginari prodotti dalla cultura contemporanea legati
alle nuove rappresentazioni del corpo (e delle identità di genere e di
orientamento sessuale) va il merito di aver portato in Italia questo piccolo, misterioso
capolavoro, efficace nel porre allo sguardo dello spettatore una non pacificata
questione sul come (ancor prima che
sul cosa) guardare.
Michele Pascarella
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Recensione di Vous êtes pleine de désespoir - Una sirena di Teatro delle Moire e Alessandro Bedosti, p. 65.
L’inafferrabile
sirena delle Moire
“VOUS ÊTES PLEINE DE DÉSESPOIR” -
UNA SIRENA, di e con Alessandro Bedosti,
Alessandra De Santis, Attilio Nicoli Cristiani. Scena e luci Adriana Renna. Costumi Elena Rossi. Accompagnamento di Cinzia Delorenzi, Antonella Oggiano, Filippo M. Ceredi. Prod. Teatro delle Moire/Danae
Festival (MILANO).
Oltre un anno di lavoro per intrecciare pratiche e
visioni: il Teatro
delle Moire, da sempre guidato con pervicace, programmatica apertura da Alessandra De Santis e Attilio
Nicoli Cristiani, si è concesso un tempo lungo, al di fuori di ogni logica
produttiva, per incontrare l’appartato attore e danzatore Alessandro Bedosti. L’esito
scenico è un salutare spaesamento: degli artisti e degli spettatori. Partendo
da molteplici letture del mito della sirena, “Vous êtes pleine de
désespoir” presenta tre figure: due minuti uomini vestiti di bianco
(stivali di gomma, guanti, grembiale e tuta da laboratorio) e una donna nuda,
il monumentale corpo celato da spesse striature nere. Trascinata con vera
fatica al centro di uno spazio scenico minimale, la scura Figura, immobile per
tutta la durata della performance, è posta in relazione alle silenziose azioni
dei performer. La relazione scenica è duplice. Il fare
dei due uomini modifica, con calma implacabile, la percezione del pubblico: il
corpo femminile diviene informe ammasso di carne quando il pavimento attorno a
lei è lavato come ci si trovasse in un macello, o in una pescheria; è Cristo deposto
se affiancato a una serie di tableaux vivants evocanti un Compianto; diventa grande
madre grazie a un lungo abbraccio filiale. L’irradiante persona, al contempo, si
manifesta come catalizzatore: sostanza che, pur rimanendo inalterata, induce
cambiamenti negli elementi con cui entra in relazione. “Vous
êtes pleine de désespoir” funziona come la celebre illusione duck-rabbit proposta circa un secolo fa dallo
psicologo Joseph
Jastrow: un’unica immagine che, alternativamente, può essere
interpretata percettivamente come
la testa di un'anatra (che guarda
verso sinistra) oppure di un coniglio (che
guarda verso destra). Un oggetto di sguardo inafferrabile, inclassificabile, misterioso:
aggettivi adatti a sintetizzare il percorso di questi artisti, per i quali il
termine «ricerca» si traduce in vibrante pratica scenica quotidiana. Mite e
feroce.
Michele Pascarella
Hystrio 4.2016:
Recensione libro Nutrimento dell’anima. La danza butō. Aforismi e
insegnamenti dei Maestri di Kazuo Ōno e Yoshito Ōno, p. 109.
Kazuo Ōno e Yoshito
Ōno, alle origini del butō
«Colui che si rivela per sparire»: la definizione
di «Maestro» usata da Eugenio Barba per raccontare il suo apprendistato con
Jerzy Grotowski pare perfetta per sintetizzare il mistero di Kazuo Ōno e l’ineffabilità
della danza da lui inventata assieme a Tatsumi Hijikata verso la fine degli
anni Cinquanta. Questo importante libro, inutile per chi fosse alla ricerca di esplicite
indicazioni motorie e/o coreografiche, si presenta con una struttura modulare intenzionalmente
aperta. Nutrimento dell’anima unisce
due distinti volumi, uno di Kazuo Ōno e uno del figlio Yoshito. Nel primo
vengono riportati, per frammenti, alcuni discorsi tenuti dal Maestro-maieuta in
apertura delle sue lezioni: riflessioni e aforismi accomunati dall’incoraggiamento
a non smettere di costruire con rigore, attraverso l’ascolto, un proprio
percorso di libertà. Filo rosso: il tema della morte. Il testo di Yoshito Ōno
racconta la biografia artistica del padre con uno sguardo sorprendentemente
prismatico: da figlio, allievo, assistente e collaboratore essenziale. Il libro
è corredato da centinaia di rarissime, folgoranti fotografie, da note
biografiche e da una utilissima cronologia degli spettacoli. Da non perdere.
Michele Pascarella
Hystrio 3.2016:
Recensione del Kunsten Festival des Arts, Bruxelles, maggio 2016:
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Recensione di Hearing di Amir Reza Koohestani, pp. 66-67:
Il noioso Hearing di Amir Reza Koohestani
HEARING, drammaturgia e regia Amir Reza Koohestani. Assistenti alla regia Mohammad Reza Hosseinzadeh, Mohammad Khaksari. Con Mona Ahmadi, Ainaz Azarhoush, Elham Korda, Mahin Sadri. Video Ali Shirkhodaei. Musica Ankido Darash & Kasraa Paashaaie. Suono Ankido Darash. Luci Saba Kasmaei. Prod. Mehr Theatre Group (IRAN-FRANCIA) in collaborazione con Bozar - Centre for Fine Arts (BRUXELLES), La Bâtie - Festival de Genève (GINEVRA), Künstlerhaus Mousonturm (FRANCOFORTE).
«Please try not to cough»: una voce di servizio aggiunge alle consuete raccomandazioni pre-spettacolo l’invito a non tossire. Del tutto pertinente, in una proposizione in cui il testo è il principale (se non l’unico) elemento di interesse.
Punto di partenza: una notte in un collegio femminile di Teheran una ragazza sente, o crede di aver sentito, una voce maschile provenire dalla stanza di una compagna. La cosa, va da sé, è vietatissima: l’ipotetica colpevole viene denunciata. La drammaturgia testuale del lavoro, ispirato al film Homework del connazionale Abbas Kiarostami in cui un gruppo di bambini intimoriti viene intervistato (o meglio: interrogato) sulla propria condotta scolastica, non riduce la complessità del contesto socio-politico di cui tratta: sarebbe stato rassicurante, perché corrispondente al clichè occidentale, raccontare di estremisti islamici che perseguitano giovani ragazze indifese per qualcosa che non hanno fatto. Lo spietato, ottuso interrogatorio su cui è incentrato Hearing, al contrario, non è portato avanti da qualche fondamentalista barbuto, ma -semplicemente e terribilmente- da una «normale» studentessa, solo un po’ più matura delle altre, condizione che sposta la vicenda da un piano singolare a uno più universale (e politico): non è solo in «Paesi come quelli» che ci si può trovare a dover provare che non si sta mentendo a qualcuno che non vuole ascoltare.
Pare inoltre efficace la scelta di rendere «linguisticamente» l’assurdità di quel labirinto kafkiano attraverso la reiterazione di alcune sezioni di testo: si gira a vuoto.
Purtroppo il progetto perde forza nell’austera, lentissima messa in scena: luci bianche fisse, quasi nessuna musica, attrici quasi sempre immobili che recitano un testo-fiume con intenti pseudo-naturalistici. L’inquisitrice è seduta nelle prime file della platea (noi siamo lei, è chiaro), a dialogare con le inquisite sul palco; una telecamera riprende un’attrice nel foyer del teatro in cui ci troviamo (noi siamo lei, abbiamo capito): ingenuità che difficilmente collimano con il credito internazionale di cui Koohestani gode.
L’effetto complessivo è una grande noia, che dispiace. Speriamo che il copione venga pubblicato.
Michele Pascarella
Hystrio 2.2016:
Recensione di Allegro cantabile di Faber Teater, p. 62:
Le infinite
variazioni dell’attore musicale
ALLEGRO CANTABILE, regia
e drammaturgia Aldo Pasquero e Giuseppe Morrone. Direzione musicale
Antonella Talamonti. Con Francesco Micca, Lodovico Bordignon, Lucia Giordano, Marco
Andorno, Paola Bordignon, Sebastiano Amadio. Prod. Faber Teater (CHIVASSO)
In Allegro cantabile, nuovo spettacolo del
piemontese Faber Teater, sei attori-musicisti in abito da sera eseguono con lievità
un proteiforme repertorio di ballate, canti di lavoro e serenate provenienti da
diversi luoghi e tradizioni. Una serie di scritte proiettate sul fondale funge
da collante drammaturgico, oltre che da stimolo alla partecipazione. Questo
nuovo esito performativo della «ricerca sull’attore musicale», che il gruppo
porta avanti da anni anche grazie alla collaborazione di Antonella Talamonti, si
propone come un ironico itinerario attraverso suono, ritmo e timbro: dal
semplice al complesso, dal silenzio al rumore e poi al suono, dalla monodia
alla polifonia. Mentre cantano, i performer eseguono con precisione
millimetrica una complessa partitura di azioni sonore, nello spazio occupato unicamente
da sei pedane di legno variamente disposte. Allegro
cantabile intreccia due modi di intendere la voce storicizzati da almeno un
secolo di pratiche e teorie: oralità (voce come portatrice di linguaggio) e
vocalità (voce come traccia della pulsionalità corporea, pre-espressiva, che le
è propria). Suono autoprodotto, parola cantata, parola scritta e proiettata,
parola detta (un illuminante frammento di Demetrio Stratos), parola in lingua e
parola in dialetto, voce senza parola e silenzio costituiscono la trama di
questo intrigante concerto scenico. «La voce che canta si sottrae sempre alle
perfette identità»: nelle parole di Paul Zumthor pare risuonare, letteralmente,
lo stile “in sottrazione” dell’ensemble, da venti anni pervicacemente impegnato
a percorrere, fuori dai circuiti e dalle mode, la via di un artista-artigiano
che si costituisce nella relazione con la polis.
Da ricordare: una versione polifonica de Il giorno
ad urlapicchio di Fosco Maraini. Sublime.
Michele Pascarella
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Recensione di Con tanto amore, Mario di Paola Tintinelli, p. 70:
Il silenzio pieni di
voci di Paola Tintinelli
CON TANTO AMORE,
MARIO, di e con Paola Tintinelli. Prod. Compagnia AstorriTintinelli (MILANO)
«Ogni suono e ogni
cosa hanno il proprio silenzio, come sulle alture a mezzogiorno c’è un silenzio
dei galli, un silenzio dell’accetta, un silenzio dei grilli»: nelle note flâneur di Walter Benjamin echeggiano i proteiformi
silenzi pieni di voci di questo minuscolo, prezioso allestimento, nel quale un’attrice
esile e potente evoca per surreali frammenti la giornata-vita di un ex postino.
Con tanto
amore, Mario è costituito
dalla giustapposizione paratattica di azioni propriamente elementari:
sollevare, spostare, spingere, ascoltare, giocare, mangiare, guardare, gettare,
raccogliere, stare. Una serie di gesti feriali ed evanescenti che, grazie alla
precisione e alla densità di questa artista minuta e possente, assumono la
forza dell’oggettività, finanche dell’universalità: nella sperduta espressività del personaggio incarnato da
Paola Tintinelli risuonano un essere soli al mondo e un senso di orfananza che rendono
chi guarda l’unico e il primo spettatore. Scevra da ogni deriva sbrigativamente nichilista, una figura muta e
malinconica in pantaloni da uomo, camicia chiara, bretelle e cravatta allestisce
e abita con mal dissimulata goffaggine una scena-casa-ufficio, incarnando e
rilanciando la dialettica fra diverse polarità: maschile e femminile (come non
pensare all’androgina Claude Cahun), costruzione e
distruzione, ordine e disordine, ilarità e mestizia. Con esibita noncuranza, lo spettacolo propone una destrutturazione
“dall’interno” della forma-dramma: nell’apparente rispetto dei suoi statuti
(plot, personaggio, set, …), passa «dal dramma-della-vita al dramma-nella-vita».
Con tanto
amore, Mario non presenta, infatti, grandi azioni organiche, giornate fatali o vicende
memorabili, ma una desolata condizione che copre l’intera esistenza. A sigillo
della vicenda umana di questo anonimo protagonista “senza qualità” è esposta
per intero, a mo’ di didascalia, l’omonima canzone di Enzo Jannacci: «Mario,
non ti resta che l’amore. Mario, non ti resta che ascoltare». Chapeau.
Michele Pascarella
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Recensione di Credi ai tuoi occhi di Gianni Farina|Menoventi, p. 75:
Una incattivita Cenerentola espressionista
CREDI AI TUOI OCCHI, di Gianni Farina. Da un’idea di Consuelo
Battiston e Gianni Farina (Menoventi). Regia Gianni Farina.
Con Consuelo Battiston e Federica Garavaglia, Zoe Pernici, Sofia Taglioni.
Scene Alessandro Panzavolta. Luci Alessandro Panzavolta e Gianni
Farina. Costumi Giovanni De Pol (Dead Meat). Progetto sonoro Mirto
Baliani. Trucco e acconciature Luca Pompozzi. Preparatore
atletico Sonia Brunelli. Assistente alla regia Neera Pieri. Prod.
Emilia Romagna Teatro Fondazione (MODENA)
Il nuovo progetto di Gianni Farina e Consuelo Battiston, anime di
Menoventi in questa occasione scritturati da ERT Fondazione, intende tradurre
in forma scenica il ritratto che Otto Dix fece nel 1925 ad Anita Berber. In
esso il contestato esponente della Nuova Oggettività rappresentò come donna di
mezza età l’allora ventiseienne ballerina, modella e attrice tedesca. È questo
straniamento à la Dorian Gray il punto
di partenza dello spettacolo, nel quale un’energica Consuelo Battiston con fare
da predicatoria maîtresse redarguisce e incita senza posa tre giovani attrici e il pubblico.
La drammaturgia testuale, composta per giustapposizione di brevi frasi, dà voce
a una quantità di luoghi comuni sui temi della donna, dell’età, della bellezza:
è esemplare, in questo senso, il lungo elenco di aggettivi-cliché “al
femminile” letti da Battiston mentre le tre ammiccanti comprimarie sono
impegnate in un ballo dal sapore smaccatamente televisivo. La danza in scena costituisce
una nuova direzione, potenzialmente feconda, nel percorso creativo del gruppo. La longilinea,
gommosa protagonista intreccia il testo con una coreografia stilizzata e
flessuosa, a rendere il proprio corpo al contempo soggetto e oggetto del dramma
presentato. Sul finire del lavoro tre
giovani streghe e Battiston-Berber (deprivata di parrucca e gioielli dopo che la
perdita di una scarpa ha dato avvio al declino) reiterano danzando in cerchio il
«Fair is
foul, and foul is fair» di shakespeariana memoria. Credi ai tuoi occhi, nel dare volume all’opera del pittore tedesco,
fa risuonare per affinità tematica il lavoro della co-fondatrice, assieme allo
stesso Dix e ad altri, del movimento dadaista berlinese, Hannah Höch, i cui corrisivi fotomontaggi
attingono a figure femminili “da rotocalco” per creare perturbanti donne-mostro.
Una protesta contro la stereotipia, forse non solo maschile, di una femminilità
piatta, univoca e servizievole. Quella che Credi
ai tuoi occhi invita, impassibile e feroce, a guardare.
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Recensione di Edipo Re di Archivio Zeta, p. 76:
Archivio Zeta: Edipo
nel vuoto
EDIPO RE, di Sofocle.
Traduzione Federico Condello. Diretto e interpretato da Enrica Sangiovanni e
Gianluca Guidotti. Musica Patrizio Barontini. Luci Antonio Rinaldi. Direzione
di scena Andrea Sangiovanni. Suono Tempo Reale. Coordinamento organizzativo
Luisa Costa. Cura Rossella Menna. Prod. Archivio Zeta (FIRENZUOLA-BOLOGNA)
Certamente occorre
collocare i fatti nel loro contesto. Archivio
Zeta, il gruppo fondato da Gianluca
Guidotti e Enrica Sangiovanni nel 1999,
ha una ben consolidata frequentazione degli autori classici, avendo già allestito,
negli anni, varie opere di Eschilo, Sofocle e Omero. Una sfida non da poco, partire dai testi maggiormente storicizzati
della cultura occidentale. E una lama a doppio taglio. Da un lato l’innegabile
richiamo del già noto, efficace soprattutto per le platee meno avvezze e disponibili
alle sperimentazioni. Dall’altro il doversi confrontare con la controversa
questione dell’originalità: nel mondo dell’arte ripetere pedissequamente ciò
che già altri hanno detto e fatto non porterebbe che ad accuse di incompetenza,
plagio, mancanza di idee. Con questo Edipo
Re, Guidotti e Sangiovanni affrontano il compito di
mettere in scena una tragedia così carica di significati e aspettative partendo
da un loro innegabile
punto di forza: la costruzione di una reale relazione significante con lo
spazio scenico, teatrale o non teatrale che sia. Entrando in sala, a sipario
aperto, si scorge nella penombra un luogo ingombro di elementi lignei neri e
marroni: ponti, scalette, la cornice di una porta, una sedia vuota al centro. Ed
è proprio la mancanza, cominciando dal volteggio a mezz’aria della sedia a
inizio spettacolo, nella luce lunare e avvolgente ideata da Antonio Rinaldi,
fino al mantello rosso “svuotato di corpo” del finale, il fil rouge di questo allestimento del testo di Sofocle, come è noto
considerato da Aristotele uno degli esempi
paradigmatici dei meccanismi di funzionamento della tragedia greca: un uomo
senza qualità fuori dal comune né per virtù né per giustizia si ritrova a
passare da una condizione di felicità ad una di infelicità non per colpa della
propria malvagità, ma per errore. Paiono del tutto organici i numerosi riferimenti, più o
meno espliciti, alle ricerche sullo spazio scenico fiorite circa un secolo fa,
tese a renderlo elemento «drammaturgicamente attivo». Le due
figure recitano il denso testo, ritradotto da Federico Condello, interagendo senza
posa con la scenografia. Dando spazio e corpo, letteralmente, ai baratri che questa
relazione crea: come non pensare al
celebre dispositivo costruttivista, simbolico e al contempo reale, creato da
Ljubov Popova per l’allestimento di Le Cocu magnifique di Mejerchol'd nel 1922? Porsi nel presente con attenzione verso il passato,
vicino e lontano. Per accerchiare un vuoto. Per farlo sostanza.
Michele Pascarella
Hystrio 1.2016:
Recensione di Macbeth di Verdi / Wilson, p. 92:
La macchina imperfetta
di Bob Wilson
MACBETH, libretto di Francesco Maria Piave e Andrea Maffei
tratto dall’omonima tragedia di William Shakespeare. Musica di Giuseppe Verdi.
Direttore Roberto Abbado. Regia, ideazione luci, scene e coreografia
Robert Wilson. Regia ripresa da Gianni Marras. Regista collaboratore Nicola
Panzer. Costumi Jacques Reynaud. Light designer Aj Weissbard. Prod. Teatro Comunale di Bologna
(BOLOGNA) in coproduzione con Change Performing Arts (MILANO).
L’aspettativa è certamente alta per la ripresa di questo allestimento
debuttato a Bologna all’inizio del 2013: cast di assoluto rilievo e produzione imponente
(dieci giorni necessari al montaggio di un’opera per la cui realizzazione, dopo
varie altre fasi, tra novembre e dicembre 2012 la troupe si è spostata per
quaranta giorni in Brasile, essendo il palcoscenico del Teatro Comunale di
Bologna occupato).
Nei primi due atti il coro è quasi al buio, a tratti una
fila di neon bianchi in proscenio offusca la visione: questo Macbeth è una macchina dell’ascolto.
Nella stessa direzione vanno l’algida semi-immobilità richiesta agli
interpreti, i loro minimi movimenti rotondi o a tratti squadrati. Figure, linee
rette e campiture in bianco e nero, all’inizio, poi anche blu scuro, rosso e
verde smeraldo.
La fruizione visiva è forse pensata, come nel
Rinascimento, per servire principalmente un punto specifico della platea, anche
se la scena di Wilson propone la connotazione simbolico-illusionistica
peculiare del Barocco, e di quell’epoca mantiene la tensione alla meraviglia. Macbeth è uno «spettacolo-fantasmagoria»,
per dirla con Ėjzenštejn, prodigo di minimali
sorprese visive: in
questo Wilson è un maestro, e la macchina produttiva lo consente.
L’estrema pulizia formale che caratterizza gli spettacoli
dell’artista texano in questa ripresa è purtroppo parzialmente tradita da una lunga
serie di dannose micro-sbavature: dettagli, certo, ma che in una produzione di
questo tipo saltano, letteralmente, agli occhi. Una quantità di sincroni
imperfetti nei movimenti degli interpreti e alcune immobilità malferme, a
tradire ciò che il regista stesso vorrebbe: «Per me ogni teatro è danza». Varie
luci che arrivano a illuminare i cantanti un attimo prima, o dopo, il momento
giusto. Minime inesattezze, ma che in una costruzione visiva il cui obiettivo è
principalmente quello di «facilitare l’ascolto della musica mediante ciò che si
vede» ottengono due effetti negativi. Il primo, molto concreto: si è distratti
nella ricezione del suono della vigorosa orchestra diretta da Roberto Abbado.
Il secondo: si sta nella contingenza di quel contesto, laddove sarebbe
auspicabile che Wilson, Shakespeare, Verdi, i molti corpi in scena e tutti i
velluti del Teatro scomparissero, per lasciare spazio al dolore, alla rabbia e
ai tradimenti che accomunano la vicenda di Macbeth
a quella delle persone sedute in platea. Per affacciarsi a un invisibile: forse
è ciò che l’Arte dovrebbe sempre provare a fare.
Michele Pascarella
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Recensione di Gola. In tre movimenti di Chiara Guidi | Socìetas Raffaello Sanzio, p. 78:
Il coro archeologico di
Chiara Guidi
GOLA. IN TRE
MOVIMENTI, regia di Chiara Guidi. Collaborazione: Alessandro Scotti. Assistente
alla regia: Chiara Savoia. Cura del suono: Giuseppe Ielasi. Prod. Socìetas
Raffaello Sanzio (CESENA)
Riprendendo una modalità già
sperimentata con il quasi-capolavoro La
terra dei lombrichi, Chiara Guidi ha realizzato Gola lavorando per pochi giorni con un variegato gruppo di persone,
modalità di “creazione istantanea” che, va da sé, evidenzia il progetto registico
più delle eventuali capacità dei singoli. Un coro intreccia tre nuclei tematici
e narrativi (i Tre movimenti del
titolo), il più evidente dei quali è la vicenda di Ewa Klonowski, antropologa
forense che per molto tempo ha lavorato dentro le fosse comuni in Bosnia per ricomporre e
nominare i resti di migliaia di vittime senza nome della guerra degli anni
Novanta, per poterli restituire alle famiglie. Porsi al servizio di un altro
essere, attraversarne e rilanciarne il dolore è il tòpos dello spettacolo, la cui intenzionalmente
incerta costruzione rimanda perfettamente al Foucault de L’Archeologia del sapere: non occuparsi di saperi ben saldi ma di
conoscenze imperfette, lingue fluttuanti, opere informi, temi non collegati. Oltre
trenta coreuti vestiti di nero (a lutto?) si muovono nel grande spazio
bianco e vuoto. In
sottofondo il pacato e feroce racconto autobiografico di Klonowski. Azioni e spostamenti imprecisi,
smaccatamente collegati a segnali sonori, testuali o luminosi. E una quantità di stilemi di esiti
di laboratorio di Chiara Guidi: bianco e nero, recitazione secca, stop in
diverse posizioni, abbondante uso di controluce con cambi improvvisi, sequenze reiterate.
Sul finale del lavoro della
corifea cesenate i performer, dopo aver rimesso in ordine la scena,
cominciano da capo lo spettacolo, criceti in una ruota che continua a girare.
Tutto concorre ad affermare la dissoluzione della forma-teatro. Il racconto dell’antropologa non si interrompe mai, come a
dire: la storia non ci ha insegnato nulla. Fine.
Michele Pascarella
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Recensione di La prima, la migliore di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, pp. 76-77:
Berardi-Casolari, una
guerra per tutti
LA PRIMA, LA
MIGLIORE, testo e regia di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari. Con
Gianfranco Berardi, Gabriella Casolari e Davide Berardi. Supervisione di César
Brie. Prod. Emilia Romagna Teatro Fondazione (MODENA)
Il nuovo spettacolo della Compagnia Berardi-Casolari è
costituito da una giustapposizione di scene, montate con sapienza artigianale e
accomunate da un tema, la Prima Guerra Mondiale, e da uno stile marcatamente
espressivo. All’inizio di La prima, la migliore
un cantante, accompagnandosi con la chitarra, intona melodie in lingua
siciliana, mentre Gabriella Casolari gli arrotola una benda bianca attorno alla
testa e al polso sinistro, che subito colora di rosso. A seguire Gianfranco
Berardi in giacca nera, camicia gialla e bombetta pronuncia, con tono da
imbonitore, un accorato discorso a tema politico. Da qui si dipana un ritmato
racconto in cui Berardi alterna narrazioni belliche in prima e terza persona, mentre
Casolari è impegnata in azioni di servizio, contrappunti e brevi intermezzi
comici. Lo spettacolo pare esplicitamente intento a demolire il “Mito
dell’Esperienza della Guerra”, rifiutandosi di guardare al conflitto come a un
evento positivo, finanche sacro: un punto di vista con cui non si può non
essere d’accordo. La partitura fisica è molto coreografata, con gesti che
illustrano il racconto delle fatiche e dello strazio che quella esperienza ha
portato con sé. A partire dal romanzo Niente
di nuovo sul fronte occidentale di Eric Maria Remarque, i due autori hanno
composto un testo a tratti (inevitabilmente?) enfatico, che a momenti vira verso un immaginario quasi
filmico: «Pezzi di corpi squarciati e dilaniati», «L’inferno era già
scoppiato», «Non è te che volevo ammazzare, ma la tua divisa». In accompagnamento
maschere antigas, bandiere, rumore di bombardamenti, elmetti, lo Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi
e Ederlezi di Goran Bregović. Le scene spesso terminano con calorosi
applausi del pubblico: La prima, la
migliore si propone con un linguaggio, e su un tema, che arrivano ai molti.
Qui sta la forza dello spettacolo, ma anche il suo contrario. Quale lingua non
consumata si potrebbe (dovrebbe?) costruire per avvicinarsi a una tragedia così
smisurata?
Michele Pascarella
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Recensione di Lavoravo all'Omsa del Teatro Due Mondi, p. 75:
Santa Giovanna nella
fabbrica delle calze
LAVORAVO ALL’OMSA, regia
di Alberto Grilli. Musiche originali e direzione musicale di Antonella
Talamonti. Testi di Gigi Bertoni. Con gli attori Federica Belmessieri, Tanja
Horstmann, Angela Pezzi, Maria Regosa, Renato Valmori e con l’ex-operaia OMSA
Angela Cavalli. Prod. Teatro Due Mondi (FAENZA)
Il militante Lavoravo
all’OMSA del Teatro Due Mondi sintetizza e rilancia due polarità che il
Novecento teatrale ha espresso con forza: «teatro con contenuti politici» (con
finalità pedagogiche esplicite) e «uso politico del teatro» (quello che incarna
in prima persona il cambiamento della relazione teatrale, l’attivazione dello
spettatore, la dilatazione del fatto scenico oltre i confini tradizionali). Il
primo valore di questa produzione va, dunque, rintracciato nella sua genesi. Nel
2010 il gruppo faentino incontra le operaie dell’OMSA, trecentoquaranta donne
licenziate da una storica fabbrica della città che ha scelto di delocalizzare
la produzione per aumentare i profitti. Dopo mesi di mobilitazione e di lotta
comuni nasce il progetto Al lavoro!,
nell’ambito del quale trovano spazio le Brigate
teatrali e altre iniziative che ibridano, concretamente, scena e polis. In questo contesto, propriamente
politico, Alberto Grilli e compagni decidono di far convergere alcuni elementi
caratterizzanti il progetto delle Brigate
teatrali con un loro spettacolo di qualche anno prima, Santa Giovanna dei Macelli, da Bertolt Brecht. Nasce così Lavoravo all’OMSA, in cui un’ex-operaia
si mescola agli attori del gruppo «ponendo l’accento sulle logiche che
schiacciano il diritto al lavoro, rimarcando le similitudini tra la crisi
economica del 1929 ritratta da Brecht e quella vissuta oggi, in epoca di
globalizzazione, dalle donne faentine». L’allestimento scenografico è semplice,
composto unicamente da sei grandi bidoni di latta. Le figure in giacca rossa
che abitano la scena eseguono, con slancio ideale e precisione tecnica, complesse
partiture coreografiche e vocali: monologhi, racconti, cori, canti popolari e
dialoghi compongono una sorta di Singspiel
operaista, dai contenuti antichi e al contempo, purtroppo, attualissimi.
Michele Pascarella
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Recensione di Pinter. Atti Unici di Nanni Garella, p. 74:
La pièce bien fait di Nanni Garella
PINTER. ATTI UNICI, di
Harold Pinter. Regia di Nanni Garella. Con Nanni Garella, Luca Formica, Pamela
Giannasi, Maria Rosa Iattoni, Iole Mazzetti, Fabio Molinari, Mirco Nanni, Lucio
Polazzi, Deborah Quintavalle, Moreno Rimondi, Roberto Risi. Regista assistente:
Gabriele Tesauri. Luci: Paolo Mazzi. Costumi: Elena Dal Pozzo. Assistente alla
regia: Nicola Berti. Direttore di scena: Davide Capponcelli. Prod. Emilia
Romagna Teatro Fondazione (MODENA) in collaborazione con Associazione Arte e
Salute onlus (BOLOGNA)
«Normalizzazione:
l’atto d’essere normalizzato; ritorno a una situazione considerata normale»: la
definizione del Vocabolario Treccani appare utile a sintetizzare la direzione verso
cui si muove il più recente esito performativo della pluriennale collaborazione
tra Nanni Garella e Arte e Salute onlus. L’istrionico attore e
regista ha messo in scena con un folto gruppo di «attori-pazienti
psichiatrici» tre
atti unici di Harold Pinter: Una
specie d’Alaska, La stanza e Una
serata fuori. «L’approccio di questi attori, provenienti da
condizioni di difficoltà e sofferenza, fornisce alla poetica di Pinter una
sponda ideale. Sul palco, il vissuto della sofferenza psichiatrica si riversa
nei personaggi come una linfa vitale»: uno spettacolo
in cui la presenza delle diverse abilità e sensibilità non è certo fortuita,
dunque, nel quale anche il testo è scelto in funzione di esse. Pare dunque
legittimo considerare entrambi i due livelli, quello teatrale e quello
riabilitativo-terapeutico, come intrecciati ed essenziali.
Pinter. Atti Unici propone
un dispositivo marcatamente «testo-centrico» nel quale tutti gli elementi (costumi,
scenografie, luci, stile recitativo, eccetera) concorrono a rendere sommamente
chiaro ed esplicito il discorso dell’autore. Ciò che lascia maggiormente perplessi,
in questo allestimento, è il costante tentativo di inseguire un’idea di
normalità, «da pièce bien fait», che annulla, o quanto meno riduce, la
preziosa alterità di ogni interprete.
La scena di questi Atti
Unici è abitata da attori bravi, ma non abbastanza: ogni tanto si
incespicano, a volte sbagliano pause e direzioni. È una quasi-perizia che,
purtroppo, fa saltare agli occhi la parte mancante.
Un
ribaltamento di prospettiva sarebbe forse salutare: a un approccio che mette in
evidenza le abilità più o meno faticosamente conquistate e le raggiunte capacità
di memorizzare, dire e illustrare se ne potrebbe sostituire uno maggiormente attento
ad accogliere e rilanciare la fragile unicità di ciascuno. Sarebbe bello che
questo spettacolo fosse interpretato non tanto da attori-pazienti
psichiatrici «bravini» che «fanno quello
che possono», come ha commentato un’entusiasta spettatrice al termine della
rappresentazione, quanto da attori-persone. Mondi irriducibilmente, ferocemente,
semplicemente altri.
Michele Pascarella
Hystrio 4.2015:
Biblioteca - pp. 100-101:
Il manuale della
scolarca della Socìetas
Claudia Castellucci
Setta. Scuola di tecnica drammatica
Macerata, Quodlibet, 2015, pagg. 440, euro 32
ISBN 9788874626557
Dopo molti anni di proteiformi esperienze
didattiche, la co-fondatrice della Socìetas Raffaello Sanzio ha composto un
corposo e rigoroso manuale di tecnica drammatica diviso in cinquantanove
giornate e diciotto materie (dalla Catalettica alla Vocalità, dalla Psicologia
della durata alla Fantasia), contenente trecentonovantasei esercizi e ventinove
discorsi. L’autrice (o scolarca, come preferisce definirsi), diffidando fin
dalla prima pagina «chiunque pratichi questi esercizi a considerarli un metodo»,
precisa che esso «dovrebbe essere immediatamente usato, cioè seguito nella
prassi, giorno dopo giorno, senza aspettare di averlo letto tutto». In Setta si intrecciano con sapienza
indicazioni sulla “neutralizzazione” iconoclasta dello spazio di lavoro e frasi
di e su Yves Klein, esercizi di disarticolazione e a-ritmia degli arti ed
esperienze di recita consonantica delle Canciones
del Alma di Juan de la Cruz, l’Alcibiade
di Platone e l’ascolto di canti infantili del Gabon bevendo il tè. E tanto
altro, davvero impossibile da riassumere qui. Quella di Claudia Castellucci è
un’opera ostica e sistematica che, pur nelle profonde diversità, è forse
possibile inscrivere nella feconda tradizione pedagogica alla base delle
rivoluzioni teatrali di inizio Novecento, allorquando alcuni fondanti libri-teatro contribuirono a definire e
al contempo a far evolvere questa disciplina (basti pensare a L’opera d’arte vivente di Appia, a Il lavoro dell’attore su se stesso
di Stanislavskij, a Il teatro e il suo doppio di Artaud). L’appartata didatta cesenate precisa con
una quantità di schemi e disegni la propria proposta, sempre attenta a spegnere
«ogni inclinazione sentimentale», intendendo la scuola come spazio comune, ma
non comunitario (non affettivo): «La solitudine
la si istituisce con gli altri, non è un problema da fugare con il contorno
degli altri. È una dimensione di verità che si prova con gli altri, i quali non
sono più gli artefici della sua eliminazione, bensì i complici della sua
manifestazione. È qui che l'amicizia veramente comincia: quando non è un
obiettivo, ma soltanto, obiettivamente, un dono azzurro».
Michele Pascarella
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Recensione di Il volo - La ballata dei picchettini del Teatro delle Albe, p. 68:
Il rap delle Albe
IL VOLO – LA BALLATA
DEI PICCHETTINI, di Luigi
Dadina, Laura Gambi e Tahar Lamri. Narrazione: Tahar
Lamri, Luigi Dadina. Basso e percussioni: Francesco Giampaoli, Diego
Pasini. Rap: Lanfranco Moder Vicari. Musiche: Francesco Giampaoli. Testi rap: Lanfranco Moder Vicari. Scene e costumi: Pietro Fenati, Elvira Mascanzoni. Regia: Luigi Dadina. Prod. Teatro delle Albe/Ravenna
Teatro, Ravenna Festival (RAVENNA).
È un momento particolarmente prolifico per Luigi Dadina: a
pochi mesi da Amore e Anarchia il
co-fondatore del Teatro delle Albe scrive, dirige e interpreta Il volo. «Per rispondere a una chiamata»,
spiega all’inizio dello spettacolo-conferenza-concerto: «Domenico Mazzotti, morto sul lavoro nel marzo del 1947, ha
insistito perché raccontassi questa storia». Il volo rilancia alcuni temi della precedente produzione (dialoghi tra
vivi e morti, presenze di qui e d’altrove), intrecciando questa vicenda a un incidente avvenuto
quarant’anni dopo nella stiva della nave Elisabetta Montanari che causò la
morte di tredici operai. Non si pensi a un “classico” spettacolo di narrazione
civile: quella dell’ensemble ravennate è una produzione che, al di là delle
intenzioni dell’autore, forse non è del tutto improprio definire post-drammatica. Le cinque figure
allineate dietro a un lungo tavolo da conferenza (un solido teatrante
romagnolo, un colto scrittore algerino, un energico rapper e due bassisti di
talento) incarnano con esattezza alcuni dei “dispositivi” evidenziati da Hans-Thies
Lehmann allorquando si occupò del superamento della forma-rappresentazione: opacizzazione
e de-gerarchizzazione dei segni, frammentazione, simultaneità. Il volo smonta, con apparente
semplicità, i capisaldi della messa in scena tradizionale: l’unitarietà
diegetica, il personaggio, la finzione. Davanti a ciascuno un cartello con il
proprio nome (vero), i cinque mescolano autobiografia e racconto storico, il Paul Ricœur di «ricordare è un lavoro che implica fatica» e
il rap underground, una
varietà di registri linguistici (lirici e quotidiani, formalizzati e liberi) e
il blues, mai relegato ad accompagnare/servire la fabula, ma voce fra le voci. L’abbattimento
delle tradizionali categorie spettacolari all’inizio lascia un po’ distanti: occorre
un tempo per capire cosa si sta guardando:
una conferenza? uno spettacolo teatrale? un concerto? Ma una volta entrati in
sintonia con ciò che accade in scena questa rischiosa peripezia
(nel senso aristotelico del «volgere delle cose fatte
nel loro contrario») dimostra che il manierismo non è il destino di tutte le
arti. Non di tutti gli artisti.
Michele Pascarella
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Recensione di Morte
di Zarathustra di Teatro Akropolis, p. 62:
La tragedia
post-dodecafonica di Teatro Akropolis
MORTE DI ZARATHUSTRA, drammaturgia e regia: Clemente Tafuri e David Beronio. Con: Luca Donatiello, Francesca
Melis, Alessandro Romi, Felice Siciliano. Produzione: Teatro Akropolis, GENOVA.
Morte di Zarathustra è un breve spettacolo che porta a emersione una complessa
ricerca, ispirata a Nietzsche, sulla nascita della tragedia.
Il tema e l’autore di riferimento sono pericolosi:
c’è il rischio di smarrirsi, in tanta vastità. Il punto di osservazione scelto
da Tafuri e Beronio può forse essere riassunto dalle parole di Jean-Luc
Nancy (non a caso pronunciate nell’ambito di un convegno sulla tragedia greca):
«Il concetto stesso di storia consiste nel venire dopo. La dimensione del dopo
le è costitutiva e, per così dire, connaturata. L’inizio, il principium, è ciò che le sfugge per
definizione, o di cui può venire a capo solo appropriandosene e decidendo di
essere essa stessa il proprio inizio, la propria fondazione, la propria
origine».
Ed è
esattamente un cominciamento, ciò a cui assistiamo in Morte di Zarathustra: il dramma è letteralmente secreto dal buio. Strazianti
lamenti e vigorosi colpi sul pavimento del giovane e magnetico Alessandro
Romi, a cui fa seguito un feroce coro ditirambico presentato (e non rappresentato, secondo un principio che
proietta il lavoro in un mileu
affatto contemporaneo) da quattro rigorosi attori che si intrecciano in una fitta
serie di coese ed espressive partiture coreografiche (linee, azioni e reazioni,
disequilibri trattenuti) che ricordano certi stilemi grotowskiani: «Tu es le fils de quelqu'un», direbbe il Maestro.
A proposito di genealogie: l’approccio
al lavoro del pervicace ensemble
genovese (che comprende, oltre alla
creazione di spettacoli e alla gestione di spazi teatrali, autonomi percorsi di
ricerca e di studio con attori e intellettuali e una serie di dotte pubblicazioni)
rimanda a una modalità tipica di certa musica post-dodecafonica, in cui l’opera
è se non la mera dimostrazione di certi assunti teorici, almeno di pari valore
rispetto ad essi. Non si vuole con ciò dare un giudizio positivo o negativo: una
proposizione così nutrita di pensiero non è certo compromessa in partenza nei
suoi valori artistici – forse che L’arte
della fuga di Bach non è nata da una precisa ed esplicita esigenza teorica?
Michele Pascarella
Hystrio 3.2015:
Recensione di Sante di Scena di Teatro delle Moire, p. 85:
L’ornitorinco delle
Moire
SANTE DI SCENA, di e con Alessandra De Santis, Cinzia Delorenzi, Attilio
Nicoli Cristiani. Da un’idea e con la
collaborazione di Luca Scarlini. Luci Adriana Renna. Costumi Elena Rossi. Assistenza
al progetto Filippo M. Ceredi. Produzione: Teatro delle Moire, MILANO.
Secondo Umberto Eco, per capire
cosa accade quando parliamo di cani, gatti, mele o sedie, abbiamo bisogno di
categorie, che gli schemi cognitivi ci aiutano a creare. Detto altrimenti: per
attribuire un significato a qualcosa bisogna riuscire a inserirlo in una
cornice. È per questo che l’ornitorinco, ad esempio, è un animale che ci mette
in difficoltà: non sappiamo bene quale etichetta assegnargli. Uno dei modi, nel
mondo dell’arte, per inquadrare un’opera è collocarla in un determinato genere: quando andiamo a teatro, di
solito sappiamo se stiamo vedendo prosa, musical, contemporaneo, balletto o
altro e, a partire dalla categoria, lo valorizziamo (o disprezziamo) per una
variazione, uno scarto rispetto al genere in cui lo abbiamo incasellato. Cercare
di eludere questo automatismo è il principale merito di Sante di Scena, progetto colto e
ambizioso che ibrida Niccolò dell'Arca e la voce di una
ex-cubista da discoteca divenuta suora, Diana Ross e Maria Maddalena de' Pazzi. Santi (o
Sante) e/a teatro: senza addentrarsi nell’universo-Grotowski (forse la persona
che con più rigore ha indagato questa relazione nell’ultimo secolo), vale
ricordare almeno San Simeone. «Vado a prendermi gioco del mondo», un motto che
nel caso dell’ensemble milanese si potrebbe sdoppiare in «vado a prendermi
gioco nel mondo»: da una parte si sfotte
il senso comune, dall’altra si mettono in atto, in una costruzione pervicacemente
non narrativa e paratattica, svariati espedienti per farsi deridere (una ridda
di ostentati clichè, canzoncine puerili, smaccati travestimenti e balletti
decisamente kitsch). Il rischio è che il pur salvifico abbassamento iconoclasta
faccia perdere di vista la quota di mistero siderale che tali temi portano in
sé: il pericolo è che si resti un po’ in superficie. Dal punto di vista del
montaggio, il limite più evidente di Sante di Scena è in quel «ritmo del vivente» che
affascinava Hölderlin, e non solo lui. Un’ottima sorpresa, infine: Alessandra De Santis. Sfolgorante.
Michele Pascarella
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Recensione di senza volontà di cattura, francesco di Roberto Corradino, pp. 84-85:
san francesco in tuta
da ginnastica
SENZA VOLONTÀ DI
CATTURA, FRANCESCO,
creazione collettiva di Ylenia G. Cammisa, Roberto Corradino, Rita Felicetti,
Antonio Guadalupie Giò Sada. Emotional
training, allestimento e direzione: Roberto
Corradino. Disegno luci e assistenza tecnica: Joe Fish Pesce. Prod. reggimento carri | teatro (BARI).
Con la minuscola: Roberto Corradino scrive (e legge) così
il nome del santo di Assisi. La biografia del suo umanissimo francesco è guardata in due momenti
fondativi: la conversione e l’ipotesi di formazione della prima comunità
francescana. In scena Corradino/francesco:
feroce, severo, a tratti finanche pedante. È attorniato da quattro giovani
attori: su tutti svetta (per ritmo, ironia e precisione) Rita Felicetti,
divertente e crudele, già apprezzata in Perdere
la faccia dei faentini Menoventi, un’artista a cui varrà prestare molta attenzione.
I cinque, in tuta da ginnastica e occhiali da rockstar, mostrano un
cominciamento, dunque. E lo fanno con la lingua e, intenzionalmente o meno, con
alcuni cliché del mondo dello spettacolo. Mettono in scena il training
dell’attore, come già il Living mezzo secolo fa. Corradino dice vari passaggi
della vita del santo con le pause, la cantilena e le ripetizioni di Nanni
Moretti. Alcuni meccanismi paiono presi da uno (a scelta) degli spettacoli di
Pippo Delbono: tutti, allineati, ripetono in sincrono una stessa azione, il
capocomico si stacca e inizia a correre in cerchio attorno al gruppo, man mano
tutti iniziano a (in)seguirlo, su musica espressiva “a effetto” e abbondanza di
controluce. La vicenda di francesco
emerge a fiotti: affiora dal puro, semplice, animalesco stare di questa improbabile comunità. La si afferra immediatamente
in quanto conoscenza condivisa: sarebbe curioso verificare le reazioni di una
platea di giapponesi. Corradino è sinuoso, misterioso, magnetico. Funziona,
propriamente, da catalizzatore: fa accadere cambiamenti, nello stralunato
ambiente circostante, quando dice e agisce e, ancor più, quando apparentemente
non fa nulla. Magistrale. Peccato per la piega moralista che assume il lento
finale: «O lo fai, o non ce la fai», ripete senza posa francesco/Corradino, più predicatorio che sintetico. Sia detto: questo
spettacolo crea un mondo, vivo e plausibile. E non è poco. Un luogo aurorale di
non ancora, di stare per. In cui tutto, come all’inizio di una fabula, deve ancora accadere.
Michele Pascarella
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Recensione di Boxe - Attorno al quadrato di Civilleri / Lo Sicco, pp. 81-82:
Boxe di Civilleri/Lo
Sicco: molto rumore per nulla
BOXE -
ATTORNO AL QUADRATO, ideazione e regia: Sabino Civilleri e Manuela Lo
Sicco. Testo: Enrico
Ballardini. Con: Filippo Farina,
Veronica Lucchesi, Dario Mangiaracina, Mariagrazia Pompei, Quinzio Quiescenti,
Stefania Ventura, Gisella Vitrano. Disegno Luci: Clarissa Cappellani, Anna
Petra Trombini. Allestimento: Leonardo Bonechi. Produzione: Fondazione Teatro della Toscana.
«Poche idee ma confuse»: Ennio
Flaiano è perfetto, per introdurre la cronaca di una piccola delusione
teatrale. I cofondatori della Compagnia SudCostaOccidentale in Boxe proseguono un’indagine sui legami
fra teatro e sport iniziata nel 2010 con Educazione Fisica. Il tema in sé non è nuovo: dalle Grandi
Dionisie ad Artaud (passando per Erba, Enia, Paolini, Martinelli e tanti altri),
i rapporti fra questi due mondi sono numerosi e sostanziali. Che il teatro
parli o meno di sport, in entrambi i casi si ha un’azione tesa alla vittoria/all’efficacia,
preparata con cura per essere eseguita in un qui e ora davanti/insieme a un
pubblico. La seconda parte del titolo, Attorno
al quadrato, evidenzia la volontà di mostrare il mondo che sta dietro e,
appunto, attorno al giovane pugile,
uno sprovveduto ragazzo delle pulizie convinto a salire sul ring. Una sorta di intento
“strutturalista” che si manifesta entrando in teatro: niente sipario né quinte;
funi, cavi elettrici e pesi calati; scale e secchi a vista. Sette volenterosi
attori accendono e spengono lampade, spostano oggetti e cantinelle, sollevano
file di fari come fossero bilancieri, litigano, eseguono una miriade di controscene, entrate e uscite
senza che si arrivi mai alla sintesi di un’emozione: Boxe non fa ridere, non fa piangere, non fa pensare. La
caratterizzazione dei personaggi è netta: tre gatti e tre volpi attorno a un
Pinocchio in calzoni corti. Il giovane pugile è l’unico innocente, “pseudo-naturale”,
tutti gli altri sono eccessivi e stereotipati, con posture e gesti che richiamano
davvero troppo certi stilemi di Emma Dante. Più volte la musica (archi a volontà) vorrebbe sottolineare
passaggi “emozionanti” con la trita progressione aumento del volume del suono –
intensificazione di luci e movimenti - urli del coro - lancio o rotazione di
oggetti - stop. Gli attori si trovano a dire testi moraleggianti per spiegarci
che imparare a boxare significa imparare a vivere. Tra i molti (cito a
memoria): «Dietro la bellezza di un gesto si nasconde la bellezza dell’essere»
e «Non è cadere, è sapersi rialzare. E se non cadi non ti puoi rialzare. È il
più grande insegnamento della mia vita». Grazie lo stesso.
Michele Pascarella
Hystrio 2.2015:
Recensione di FAR di Wayne McGregor, p. 112:
Il grande freddo di
Wayne McGregor
FAR, ideazione direzione di Wayne
McGregor, coreografia di Wayne
McGregor in collaborazione con i danzatori. Musica originale: Ben Frost. Disegno luci: Lucy
Carter. Scene: rAndom International. Costumi: Moritz Junge. Prod. Sadler’s
Wells (London, UK) e Peak Performances @ Montclair State University (USA).
«Le più
importanti compagnie di danza di tutto il mondo invocano l’attenzione del coreografo»: gli estratti del Sunday
Times inducono alte aspettative. Deluse. Wayne McGregor sa quel che fa, i suoi
danzatori sono bravi e bellissimi, la scenografia (un pannello-fondale
stracolmo di led luminosi) è ben realizzata. Basta questo per fare un buono
spettacolo? No.
Si
comincia con quattro fiaccole accese agli angoli del palco, l’aria Sposa son disprezzata di Geminiano
Giacomelli cantata da Cecilia Batoli e un duetto sinuoso, finanche animalesco.
È come se il «multi-premiato coreografo e regista britannico» ci volesse dire che
lui, se vuole, quella roba lì la sa fare. Ma non vuole: segue un’ora di martellanti
suoni sintetici, ridondanti effetti di luce bianca e una costruzione coreografica
distante, fredda, chiusa.
FAR, «mix di scienza, cibernetica e
modern dance», è stato elaborato con il supporto di tre scienziati cognitivisti,
allo scopo di testare, grazie all’ideazione di un apposito software, nuovi
movimenti.
Il
pensiero, ovviamente, va a Merce Cunningham e al suo lavoro (iniziato ben un
quarto di secolo fa…) con il programma digitale Life Forms.
Un
elemento di prossimità fra i due lo si individua nella comune assunzione di
forme riconducibili alla tecnica classico-accademica, poi decostruite
attraverso torsioni, decentramenti del peso, cambi repentini di direzione,
accelerazioni e rallentamenti, estreme stilizzazioni e indipendenza di una
parte del corpo dall’altra, a creare una sorta di apparente caos.
Ma a McGregor,
del Maestro, manca del tutto la salvifica, gioiosa ironia: c’è un’aria di
seriosità compiaciuta, sul palco di FAR,
che certo avrebbe meritato qualche rimbrotto da parte del nume tutelare della
post-modern dance.
Nonostante
il nome (Random Dance), la Compagnia di McGregor non ha nulla della feconda
aleatorietà della polimorfa congrega nata al Black Mountain College nel ‘52, o
delle sue successive manifestazioni.
E non
c’è niente da fare: Wayne McGregor, anche se ha al suo fianco «la superstar
della musica elettronica australiana, Ben Frost» non può contare su John Cage.
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Recensione di Preludio e La sagra della primavera di Virgilio Sieni, p. 112:
Virgilio Sieni, fra archeologia e Avanguardia
In questo dittico, non a caso denominato Le Sacre, il pezzo forte “sulla carta” è
certamente il balletto coreografato per la prima volta da Nižinskij poco più di un secolo fa. La prima parte, che si preannuncia
come una “semplice” introduzione, porta invece con sé alcune ottime sorprese: il
sestetto di donne che agisce nella semioscurità della mastodontica scena vuota
del Preludio svela con grazia e potenza
nuove sorprendenti sfumature dell’universo coreutico del celebrato coreografo
fiorentino. Interagendo con le musiche battenti e ondeggianti del sempre più solido
Daniele Roccato, le sei vibratili figure nude, quasi sempre affiancate, con
segmentati scatti di schiena e braccia formano una sorta di umanissima divinità,
un minuscolo e commovente grumo di vita: «un piccolo pieno perduto nel vuoto», direbbe
Samuel Beckett. Il groviglio di arti annaspanti e invocanti, che ricorda certe
tavole di Gustave Doré per la Commedia dantesca, per brevi momenti
lascia spazio a una danzatrice che si stacca dal gruppo, portando a emersione
tensioni e contrasti muscolari à la Schiele, per poi tornare a esser parte pulsante
di una comunità di corpi in vita.
La seconda coreografia, con l’orchestra nella buca a
eseguire le maestose musiche di Stravinskij,
vede dodici algide figure comporre su un abbacinante tappeto rosso una selva di
intricati incroci, prese e sollevamenti, sorprendenti per complessità e maestria. Il
lavoro è impreziosito da una quantità di citazioni cinetiche di autori dell’epoca
in cui Le Sacre debuttò: Laban, Foregger
e soprattutto Mejerchol'd,
non tanto per le forme, quanto per la sottesa fiducia nel gesto come insostituibile
mezzo di espressione dell’ineffabile. I corpi
di questa Sagra vibrano “per
simpatia”, secondo le imperscrutabili leggi di un rito di iniziazione rivolto
ai danzatori, più che al pubblico-testimone. Le primordiali figurazioni di
partenza (cerchi, linee e punti nello spazio) si rivelano come immagini affioranti attraverso la
stratificazione di esperienze diverse: è pratica archeologica. Non nostalgia verso il passato perduto, ma ineludibile
passaggio verso il futuro.
Michele Pascarella
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Recensione di Voci di tenebra azzurra del Teatro Valdoca, p. 95:
Il troppo pieno del
Teatro Valdoca
VOCI DI TENEBRA
AZZURRA, di e con
Mariangela Gualtieri. Regia, scene
e luci di Cesare Ronconi. Abiti e oggetti di scena di Patrizia Izzo. Fonico Luca
Fusconi. Prod. Teatro Valdoca, in collaborazione con Teatro A. Bonci, CESENA.
Un enorme cappello a punta, la faccia sporca di terra, piccole danze burattinesche,
disequilibri e rotazioni: l’inquieta e inquietante figura incarnata da Mariangela
Gualtieri in Voci di tenebra azzurra combina
il circo immaginato nel ’23 da S.M.
Ėjzenštejn a invocanti nuvole pasoliniane. Del grande russo rispecchia anche
l’anelito a un teatro che agisca efficacemente sullo spettatore, a un’arte che
trasformi. Non è una novità: da molto tempo la «poeta» cesenate pratica
una parola che si pone come traccia evidente di un itinerario evolutivo
condiviso, come segno di un comune «rituale di apprendimento» alla gioia. Negli
anni le sue esortazioni hanno trovato nella progressiva semplificazione (non
solo) formale la loro cifra: Mariangela Gualtieri dà voce ad alcuni tòpoi a lei
cari (il mistero degli animali, l’eredità di altri poeti, l’attenzione sottile)
in minimali, densissime letture al microfono dei propri versi, commoventi nel senso etimologico del “fare
muovere assieme” chi dice e chi ascolta. Nel caso di Voci di tenebra azzurra, invece, si assiste a un’inversione di
tendenza che lascia interdetti. Il volto dipinto e i costumi da clown
malinconico sono peculiarità del regista Cesare Ronconi, a lui utili per dare vigore
scenico agli acerbi corpi con i quali sempre più spesso si trova a lavorare. Un
analogo mascheramento produce l’effetto opposto sulla maturità di Mariangela Gualtieri,
la cui forza sta anche (e soprattutto) nel silenzio che la precede e la segue, nel
vuoto che ha intorno, nella sua conquistata nudità. In questo spettacolo tornano
gli stilemi del Teatro Valdoca: strisce di luce bianche e blu, bastoni di led
bianchissimi, palchetti e predelle a moltiplicare i piani, costumi con ampie
gonne, figure di animali. E, appunto, cappelli a punta, volti dipinti e
disequilibri immobili. Si ripropone una ineludibile questione di fondo: qual è il confine tra la fedeltà al
proprio percorso e la maniera? O forse il manierismo è davvero il destino di
tutte le arti?
Michele Pascarella
Hystrio 1.2015:
Recensione di Amore e Anarchia del Teatro delle Albe, p. 75:
I fantasmi anarchici
delle Albe
AMORE E ANARCHIA, di Luigi Dadina e Laura Gambi. Con Luigi Dadina e Michela Marangoni. Scene e luci di Pietro Fenati e Elvira
Mascanzoni. Suoni di Alessandro Renda. Regia di Luigi Dadina. Prod. Ravenna
Teatro, RAVENNA.
Può una persona essere
pienamente nel mondo e al contempo sparire? E un attore in scena? Il Teatro
delle Albe pare voler rispondere a questi interrogativi con Amore e Anarchia, spettacolo che narra
di una coppia di combattivi anarchici nati a metà Ottocento e da circa un
secolo residenti, non visti, nella scuola di San Bartolo, vicino a Ravenna (luogo
dove il lavoro ha debuttato).
Due figure dialogano. Raccontano.
Cantano. Mugugnano. Si commuovono. Sembrano domandarsi, come direbbe Woody
Allen, «se un ricordo è qualche cosa che abbiamo o che abbiamo perduto». Sono due
ossimori: vivi e fantasmatici,
desideranti e rappacificati, vicini e discosti. Interagiscono in e con uno
spazio elegantemente geometrico che dà volume alla loro sdoppiata condizione
attraverso materici contrasti:
buio-luce, bianco-nero, pieno-vuoto. Fanno del “confondere” (nel senso etimologico di “versare un
elemento nell’altro”) la cifra dello spettacolo.
Nella semioscurità della minuscola sala affondata nella
campagna ravennate viene in mente Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders: là due
umanissimi angeli, Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander), qui il co-fondatore
del Teatro delle Albe Luigi Dadina e Michela Marangoni. Stanno in equilibrio, con
destrezza, tra l’ineludibile “qui e ora” della (rap)presentazione e la condizione,
propriamente surreale, nella quale ciò di cui resta traccia nella memoria non si sa se sia o meno
un prodotto dell’immaginazione.
Non si pensi a fumosi concettualismi: Amore e Anarchia è uno spettacolo
di robusto teatro d’attore con un impianto tradizionalmente testocentrico e un
copione costruito, anche con la consulenza degli studiosi Massimo Ortalli e
Cristina Valenti, su basi storiche ben documentate.
Dal punto di vista recitativo, Dadina
aggiunge alla consueta rocciosità inedite sfumature di fragile morbidezza, mentre
Marangoni dà prova di maturità, dopo un decennio di apprendistato alla bottega
artigiana delle Albe: un lento, paziente allenamento alla sottrazione.
Michele Pascarella
Hystrio 4.2014:
Recensione di Jackie e le altre di Andrea Adriatico, p. 85:
L’amaro teatro di Elfriede
Jelinek
JACKIE E LE ALTRE, regia di Andrea Adriatico. Con
Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s, Selvaggia Tegon Giacoppo. Costumi di
Angela Mele. Suono e scene di Andrea Barberini. Prod. Teatri di Vita, BOLOGNA.
Jackie e le altre è la seconda parte di una
trilogia che Andrea Adriatico e Teatri di Vita stanno dedicando alla scrittrice e drammaturga austriaca Elfriede Jelinek, Premio Nobel per la letteratura nel 2004. In questo
spettacolo Jackie Kennedy Onassis, «eroina e metafora del femminile
contemporaneo», viene moltiplicata all’infinito: il palco è occupato per metà
da sedie, su ciascuna sta una piccola bambola che ricorda la first lady; un
video in loop compone e scompone l’immagine
di una Jackie un po’ pulp; le attrici sono travestite come la celebre americana
(parrucca, scarpe col tacco e tubino neri, sciarpa sulla spalla e rossetto
fucsia, collana di perle e guanti bianchi). L’asciutto disegno registico dà voce a un testo che mescola racconto dei
fatti e pensieri sulla vita: «Va bene avere il tempo per una poesia, ma è
meglio se è il tuo abito ad essere una poesia», «Per catturare gli altri
bisogna essere prigionieri di se stessi». Sulle quattro attrici fari
bianchissimi. Una piccola danza spettrale, composta di movimenti rigidi e meccanici. Reiterati, spersonalizzanti cambi di
postazione. L’insieme ricorda un film di Robert Wiene. È proiettato un pezzo del funerale di John F. Kennedy,
alternato ad altri filmati e fotografie in bianco e nero che quasi sempre
(rap)presentano ciò di cui si sta parlando. Sul finale, spuntano tre bandiere americane e una palestinese. Viene in
mente Ennio Flaiano: «Quando da un quadro si arriva a capire che il pittore è
repubblicano, socialista, comunista o liberale vuol dire che il pittore non dipinge:
ossia, che invece dei suoi sentimenti preferisce mettere in moto i suoi
risentimenti […] L’opera d’arte riflette sempre il suo tempo, per quel tanto
che in esso c’è di slancio positivo e di vero. Ne afferra il senso. E a
insaputa dell’autore».
Michele Pascarella
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Recensione di Col tempo e Esercizi di primavera di Virgilio Sieni, p. 85:
Virgilio Sieni, tra essenza e maniera
«Nel
cortile del castello c’era un fico pluricentenario, simile a un saggio
orientale che ormai sappia raccontare solo storie estremamente semplici»: Col tempo, spettacolo che ha inaugurato il
nuovo luminoso corso del Festival Orizzonti di Chiusi, può forse essere
sintetizzato dalla “semplicità conquistata” raccontata nel romanzo Le braci di Sándor Márai. Il titolo originale di questa celebre opera dello scrittore ungherese è A gyertyák csonkig égnek,
letteralmente "bruciare le candele fino in fondo": Virgilio Sieni,
in questo nuovo passo del suo rigoroso percorso verso l’essenzialità, sembra voler
“bruciare fino in fondo” tutto ciò che è accessorio, ridondante. Cosa rimane? La danza, se la si intende in senso
molto aperto. E il concreto sorreggersi fra umani. Il palcoscenico di Col tempo è una pedana quadrata di
colore nero con al centro un grande cerchio rosso. Jari Boldrini e la giovanissima Sonia Bieri percorrono incessantemente e
calmamente la circonferenza vermiglia, sostenendosi a vicenda in una quantità
di precari equilibri, realizzando variegate andature rese possibili unicamente
dal reciproco affidarsi, come Mobiles
di Alexander Calder trasposti in
forma pre-coreutica. Ecco il più grande merito del minuscolo ed entusiasmante Col tempo:
il coraggio di stare (o di
tornare) nel principio.
Meno travolgente,
invece, l’altro spettacolo di Sieni ospitato dal Festival Orizzonti, Esercizi di primavera, eseguito da una «piccola
comunità» di sei danzatori che, come fauni, folletti o boscaioli, abita uno
spazio che «potrebbe essere l’apertura di un bosco, di una radura che si lascia
penetrare dalla luce». Una serie di assoli, duetti, trii e sestetti, energici
ed elastici. Azioni e reazioni, in sincrono e in opposizione. Stop ripetuti.
Cerchi che si aprono e si chiudono in un respiro comune, contrapposti a
passaggi apparentemente confusi, da sabba infernale, da bestiari fantastici à la Borges. Il risultato complessivo
non convince del tutto, per due motivi. Primo: vari sincroni e stop non
pulitissimi, francamente inaccettabili in uno spettacolo che, per il livello in
cui si colloca, richiederebbe assoluta precisione. Secondo: Esercizi di primavera propone
esattamente ciò che da Virgilio Sieni ci si potrebbe aspettare, a partire dai
costumi pastello e dai colti riferimenti filosofici (in questo caso: Martin Heidegger).
Qual è il confine tra la fedeltà a se stessi e la maniera? O forse, la
questione è davvero aperta, il manierismo è il destino di tutte le arti?
Michele Pascarella
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Recensione di La danse des amants di Taverna Est Teatro, p. 84:
Mille e novecento e qualcosa
LA DANSE DES AMANTS, scritto e diretto da Sara Sole Notarbartolo. Con Antonella Abys, Rosaria
Bisceglia, Andrea de Goyzueta, Marco Fandelli, Jo Lattari, Roberta Misticone,
Marco Palombo, Peppe Papa, Milena Pugliese, Fabio Rossi, Emanuele Valenti e Chiara Vitiello. Training e studi sul
movimento di Marina Rippa. Costumi di Gina Oliva. Disegno luci di Paco
Summonte. Assistenti alla regia: Irene Vecchia e Marco Serra. Prod. Taverna Est Teatro in collaborazione con L’Asilo e
la produzione esecutiva di Magazzini di Fine Millennio, NAPOLI.
Siamo nel «mille e novecento e qualcosa» a Mirnastorno,
un minuscolo paese italiano in cui non accade nulla. È tempo di guerra, ma lì non
ci sono bombardamenti «perché gli aerei non lo trovano neanche per sbaglio», né
partenze di soldati «perché non ci sono strade che portano al paesino e quindi
neanche strade per andare via». Un ballo d'estate in un’aia (con corredo di amoreggiamenti,
liti e sollazzi) è l’occasione di questa Danse,
brioso «spettacolo festa» pensato per spazi non
teatrali all’aperto. Salta subito agli occhi la dimensione vividamente
corale: dodici figure in scena (una folla, di questi tempi), tratteggiate “con il
pennarello a punta grossa”, creano lo spazio, abitandolo. Tavolo con tovaglia a
quadretti bianchi e blu, bottiglie di vino, ragazze con vestiti colorati, fili
di lampadine, uomini in giacca, corteggiamenti su due file saltellanti, prete
che suona la campanella quando maschi e femmine si avvicinano troppo, canti,
scherzi, risse, sguardi intensi, sentimenti sovraesposti e una quantità di
controscene a cui certo non difetta il ritmo. Il brulicante affresco è composto
da Sara Sole Notarbartolo con la
sapienza di un Bruegel il Vecchio partenopeo (cioè: con una lievità e una
gaiezza che al grande fiammingo forse in parte mancavano).
Questa
Danse potrebbe andare avanti per ore,
o terminare dopo pochi minuti: poco cambierebbe. Si guarda lo spettacolo come ci
si pone davanti a un dipinto, la cui fruizione dura il tempo che ciascuno
desidera. In questo senso, viene da pensare che l’autonoma ricezione dell’opera
da parte dello spettatore, se resa strutturale, renderebbe lo spettacolo di
Taverna Est Teatro pienamente contemporaneo, parte di un’attitudine tutta
novecentesca al ripensamento del mito romantico dell’artista geniale e unico
che dà compiutezza a un’opera, concepita come un mondo in miniatura con i suoi
propri limiti e le sue frontiere.
Peccato per il finale piuttosto
scontato, con il pubblico chiamato a danzare assieme agli attori. Sarebbe
bastato seguire l’indicazione di Jean-Jacques Rousseau nella celeberrima Lettre à D’Alembert: «Piantate al centro
di una piazza un palo con una ghirlanda di fiori, radunate il popolo e avrete
una festa».
Michele Pascarella
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Recensione di BoleroEffect e NO TENGO DINERO di Cristina Rizzo, p. 78:
Cristina Rizzo: ripetizioni
e accumulazioni. A Santarcangelo
Cristina
Rizzo ha aperto e chiuso, con due lavori stratificati e intelligenti, la
quarantaquattresima edizione del Festival Internazionale del Teatro in Piazza
di Santarcangelo.
Nel
primo fine settimana ha presentato BoleroEffect. Partendo dall’omonima composizione di Maurice Ravel, lo spettacolo indaga
il meccanismo della ripetizione di cui essa, come è noto, è costituita. Le due vigorose
danzatrici in scena, accompagnate da un dj, creano «una sorta di dance hall
post-globale» satura di suoni sintetici e accattivanti, nella quale si muovono con
ferma determinazione. L’asciutta scrittura coreografica porta al parossismo il
«lunghissimo e graduale crescendo senza il ben che
minimo tentativo di virtuosismo» che, nelle parole e nelle intenzioni del
compositore francese, caratterizza il suo Bolero. In musica non può esistere
alcun motivo senza che vi sia ripetizione: in questo senso, il lavoro di
Cristina Rizzo può dirsi più affine a una logica puramente musicale che a una
qualche forma narrativa, come ad esempio un’opera teatrale tradizionale (si
pensi, per esser chiari, a come apparirebbe Amleto se ogni pochi minuti
ripetesse «Essere o non essere?», o se ogni atto di quella tragedia fosse
eseguito due volte...). BoleroEffect, proprio come la musica assoluta, è
arte della ripetizione: uno spettacolo di danza “col da capo”.
Il Festival di Santarcangelo si è chiuso con il
proteiforme NO TENGO DINERO. In esso Cristina Rizzo, accompagnata da una sorprendente smonta la forma-spettacolo “da dentro”: per accumulo,
per eccesso di segni. Cerchi fosforescenti attorno al collo. Vocalizzi,
risatine, gemiti, ghigni. Equilibrismi e contorsioni. Una fascia argentata da
danza del ventre. Monologhi in inglese, francese, spagnolo, italiano e
portoghese. Nessun discorso portato a termine. Pose smaccatamente erotiche. Un
piccolo canto difonico. Sguaiati occhiolini. L’aria di Verdi Amami Alfredo e la musica rap. Zucche
gialle che rotolano a terra. NO TENGO DINERO
utilizza con arguzia molti dei «dispositivi» del Teatro post-drammatico
individuati da Hans-Thies
Lehmann: frammentazione, disordine, decostruzione, incompiutezza, montaggio
discontinuo, simultaneità, sospensione del senso, opacizzazione dei segni. Sfinisce la rappresentazione, la svuota per
sovrabbondanza. Lo studioso tedesco, nel 1999, si è occupato della crisi della forma-dramma in ambito
prioritariamente teatrale. In questo caso, trattandosi di danza, viene un
dubbio: “post-coreutico”
si potrà dire?
Michele Pascarella
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Recensione di Robinson di mk, p. 78:
Natura
vs cultura
Nel 1967 Michel Tournier ha scritto Venerdì o il limbo del Pacifico,
riprendendo il romanzo Robinson Crusoe
di Daniel Defoe del 1719. Il protagonista del libro di Tournier, diversamente
dall’originale, non è un colonizzatore, ma uno sperduto naufrago che fa
esperienza di un modo più indifeso di stare nel mondo. Venerdì, il selvaggio, lo
conduce verso una vita di scoperte e di intrecci con la natura, preparandolo «a
una totale reinvenzione di se stesso». La
prospettiva di Tournier rappresenta una nuova occasione per indagare coreografo
muovendosi
freneticamente su traiettorie e binari che costringono i loro reiterati e
spigolosi disegni cinetici. Al loro agire ossessivo fa da controcanto un placido
ed enigmatico indigeno, con il corpo dipinto di giallo e di nero. Egli si
sdraia, aspetta, osserva, raccoglie lentamente sassi da terra, esce di scena. Di
tanto in tanto rientra, guarda i danzatori e il pubblico e se ne va. Un
passaggio de Il crudo e il cotto di
Claude Lévi-Strauss sintetizza con efficacia una delle possibili necessità di
questa antitesi, e più in generale della ricerca “antropologica” di : «Non si tratta
di vogare verso altre terre […] Il rovesciamento che si propone è molto più
radicale: solo il viaggio è reale, non la terra, e le rotte sono sostituite
dalle regole di navigazione».
Il
finale di è da manuale: dal cielo piovono di colpo centinaia di fiori, veri e
colorati, il cui profumo arriva forte in sala. Molti coprono il pavimento,
altri restano appesi, sospesi a mezz’aria. La natura occupa per intero il
volume dello spazio scenico. Non c’è più posto per la danza. Fine.
Michele Pascarella
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Recensione di L’Encyclopédie
de la parole | Suite chorale n° 1 “ABC” di Joris Lacoste, p. 77:
Potere alla parola
Tre notizie preliminari, necessarie a inquadrare questo
articolato progetto. Prima: l'Encyclopédie de la parole è stata fondata nel
2007 da Joris Lacoste allo scopo di esplorare la lingua parlata in tutte le sue
forme. Colleziona registrazioni di parole e le indicizza secondo diverse
proprietà (cadenza, enfasi, melodia, etc). Seconda: l’Encyclopédie de la parole,
oltre a sessioni d’ascolto, drammi sonori,
laboratori e progetti radiofonici, realizza
Suites chorales. In esse vengono
riprodotte fedelmente una successione di voci di varia provenienza. Ultima: Suite chorale N°1 “ABC” presenta
una quarantina di estratti, è eseguita in undici lingue da ventidue artisti
(undici attori e undici ospiti locali) e si sforza di mostrare alcune
manifestazioni dell’universo umano evocandole unicamente attraverso le voci. Questo
“teatro d’ascolto” ricorda
la celeberrima 4’33’’
di John Cage: progettare un’opera per includere i suoni del mondo. Suite chorale N°1 “ABC” ibrida sistemi di pensiero occidentali e
orientali, la fenomenologia e lo zen: in perfetto stile John Cage, appunto. I
“documenti vocali” eseguiti con precisa maestria dal variopinto e affiatato (è proprio il caso di dire…)
ensemble comprendono il brusio degli spettatori prima di uno spettacolo
(registrato da J. Lacoste nel 2013), un’assemblea di Occupy Wall Street di due
anni prima, un orologio parlante, “Sotto la panca la capra campa, sopra la
panca la capra crepa”, una master class di Maria Callas alla Juilliard School
nel ’71 e Imagine di John Lennon
cantata intrecciando le parole alle istruzioni per suonare il brano al pianoforte.
E tantissimo altro. Il risultato, come si può intuire, è ritmato, prismatico, divertente.
Ma è anche inaspettatamente commovente,
nel senso (etimologico) che ci fa “spostare con” la moltitudine di fenomeni che
attraversano le nostre orecchie. E assomigliare, almeno un po’, agli angeli de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders:
in ascolto delle molte voci del mondo. Fuori da sé, finalmente.
Michele Pascarella
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Recensione di Souls di Olivier Dubois, p. 75:
Povere anime perse nel deserto
SOULS, creazione e coreografia di Olivier Dubois. Con Tshireletso Stephen
Molambo, Youness Aboulakoul, Jean-Paul Maurice Noël Mehansio, Hardo Papa Salif
Ka, Ahmed El Gendy, Djino Alolo Sabin. Assistente alla creazione: Cyril Accorsi. Musiche di François Caffenne. Luci di Patrick Riou. Costruzione
scene: Robert Pereira. Prod.Compagnie Olivier Dubois, ROUBAIX.
«Ma se
il corpo non è l’anima, l’anima dov’è?»: viene da pensare al poeta statunitense
Walt Withman, all’inizio di Souls. Il titolo dello spettacolo è perfettamente
evocativo: un bel gioco prismatico di rimandi paradossali tra le scarnificate
“anime” dell’intestazione e una danza solida, carnale, terrigna. La scena è
abitata da sei aitanti danzatori africani (provenienti da Marocco, Costa
d’Avorio, Senegal, Egitto, Repubblica Democratica del Congo e Sudafrica) che agiscono
dentro a un grande recinto quadrato riempito di sabbia, simile a quelli
posizionati nei giardini di molte scuole dell’infanzia per far giocare i
bambini. Souls suggerisce (e a tratti
molto esplicitamente racconta) una traversata del deserto. E dell’esistenza: lo
spettacolo articola una prevedibile progressione nascita-vita-morte,
ripercorrendo con enfatico catastrofismo le tappe dell’evoluzione ontogenetica
e filogenetica. Una piccola lezione di storia e scienze umane. Danza didattica.
Souls non offre alcun guizzo: estrema
lentezza della coreografia (a parte qualche passaggio macchinosamente dinamico),
luci basse e immobili, musica “mono-tona” (un ininterrotto grave boato posto ad
evocare qualche forza primigenia). È una danza che si vorrebbe contemporanea ma
che ripropone stancamente, senza alcuna invenzione, modelli narrativi vecchi di
secoli. Il settecentesco ballet d’action,
almeno, aveva quasi sempre una trama meno prevedibile: Olivier Dubois non è il
Gasparo Angiolini del Festin de pierre.
Souls pare non voglia nemmeno “citare”
quella tradizione (nel senso di inserirla in un proprio discorso,
rinnovandola): Olivier Dubois non è George Balanchine. Il quarantaduenne
danzatore e coreografo vanta una carriera affatto blasonata: ha lavorato con
Sasha Waltz, Jan Fabre e il Cirque du Soleil, da qualche mese è direttore del BALLET
DU NORD, succedendo niente meno che a Carolyn Carlson. Nonostante ciò, dal
pubblico in sala è stato salutato con qualche applauso e svariati fischi. Come
è giusto che sia.
Michele Pascarella
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Recensione di Proscenium works 1979-2011 di Trisha Brown, p. 75:
Il monumentale tour
d’addio di Trisha Brown
PROSCENIUM WORKS
1979-2011, quattro
coreografie di Trisha Brown. Con Neal
Beasley, Cecily Campbell, Olsi Gjeci, Tara Lorenzen, Megan Madorin, Tamara
Riewe, Jamie Scott, Stuart Shugg, Nicholas Strafaccia. Prod. Trisha Brown Dance Company, NEW
YORK.
L’occasione è di quelle da togliere il fiato: il glorioso
Ravenna Festival ospita in esclusiva per l’Italia il Farewell Tour della Trisha Brown Dance Company, giro d’addio internazionale
intrapreso nel 2013 a seguito dei gravi problemi di salute della settantottenne
artista statunitense, ultima possibilità di vedere quattro coreografie
elaborate per il palcoscenico tradizionale da Trisha
Brown nel corso di trent’anni.
Si comincia con For
M.G.: The Movie, pièce del 1991 dedicata a Michel Guy, l’illuminato Ministro
della Cultura francese che nel 1972 creò il Festival d’Automne. È il primo
tassello del ciclo Back to Zero, realizzato
per indagare il movimento inconscio: nove interpeti in calzamaglia rosso e
arancio abitano un ambiente ipnotico, minimale, matematico e astratto, che
interagisce con le musiche composte e suonate al pianoforte da Alvin Curran.
L’esecuzione musicale live accompagna anche la seconda
coreografia in programma, Rogues del
2011: un duetto maschile in cui, a turno, i due interpeti interrompono e
proseguono l’uno il movimento dell’altro, a creare frasi coreografiche semplici
e insieme rigorose, esemplificative dello stratificato e ritmico pensiero coreografico
di Trisha Brown.
Dopo un breve intervallo è la volta di Les Yeux et l’âme, brano del 2011 su estratti del Pygmalion di Jean Philippe Rameau. Sono quindici
minuti gioiosi e maestosi, danzati da eleganti ballerini in costumi di stoffa
leggera grigia e azzurra. Questa pièce, forse grazie a sonorità piuttosto intelligibili
e a un vocabolario di movimento facilmente riconducibile all’area semantica
“danza”, è di gran lunga la più esplicitamente apprezzata dal pubblico in sala.
Ha la forza cupa e labirintica di un intricato enigma la
coreografia con la quale si chiude la serata: Son of Gone Fishin’, qui proposta nella early version del 1981. Si tratta di una pièce che la capofila
della post-modern dance ha definito
«l’apogeo di complessità» del suo lavoro. In essa, sei danzatori in costumi
dorati eseguono una complicatissima partitura costituita da flussi e riflussi
che, sebbene sia fissata in ogni minimo dettaglio, dà l’impressione di un
movimento libero, se non addirittura casuale. Gli interpreti danno prova di
memoria e capacità di coordinazione strabilianti, e creano con geometrica
morbidezza un insieme fluido e al contempo claustrofobico.
I quattro lavori proposti incarnano uno dei topoi di questa grande maestra di ingegneria coreutica: «Attraverso
le limitazioni si raggiunge la libertà».
Michele Pascarella
Hystrio 3.2014:
A p. 45, nel Dossier Teatro e performance
Romeo
Castellucci: «attori, non performers»
In occasione della
personale e la volpe disse al corvo,
che Bologna gli ha dedicato tra gennaio e maggio, una conversazione con il
fondatore della Socìetas Raffaello Sanzio. Attorno a ciò che muta e a ciò che
resta.
di Michele
Pascarella
I suoi lavori sono stati presentati in più di cinquanta nazioni. Nel 2002 è
nominato “Chevalier des Arts et des Lettres” dal Ministero della Cultura della
Repubblica Francese. È stato direttore artistico della Biennale Teatro di
Venezia (2005), “Artiste Associé” alla direzione artistica del Festival
d’Avignon (2008) e artista prescelto per il Tokyo Festival (2012). Dal 2013 è
invitato a produrre alla Schaubhüne di Berlino. Romeo Castellucci, Leone D’Oro
alla Carriera nel 2013, è il principale rappresentante italiano del cosiddetto
“teatro performativo”. Che tanto ha significato per le generazioni a venire.
Il suo lavoro, agli esordi, si è
definito “iconoclasta”. Questo termine ha ancora senso, nel presente del suo
teatro?
Sì,
nella misura in cui rimane una tensione sottocutanea, non rivelata. Ha molto
senso, perché indica un conflitto che necessariamente si ha con ogni immagine,
ad ogni livello: sia come artista che come spettatore. Ogni rapporto con
l’immagine è fondato su una mancanza, e sull’assenza di ogni referente.
L’iconoclastia presume una battaglia, forse oggi per me in parte conclusa, ma
che rimane come spinta di una forza del passato.
e la volpe disse al corvo rispecchia una sua
grande attenzione alla linguistica. Cosa la affascina, di questo mondo?
La
linea generale del progetto è un’idea della curatrice Piersandra Di Matteo, che
ha suggerito come, in molti lavori della Socìetas Raffaello Sanzio, le immagini
siano espressioni linguistiche. Tutto ciò che si vede, si prova e si sente in
teatro è di natura linguistica: esso riflette sempre se stesso come
rappresentazione-in-quanto-tale. A Bologna sono raccolti spettacoli, in parte
del passato e in parte nuovi, accomunati da un’idea di linguaggio come veleno,
come elemento estraneo, non come qualcosa che unifica. Il linguaggio può essere
un’arma mortale.
Considera le figure che abitano i suoi
lavori attori o performer? Qual è la differenza, dal suo punto di vista?
Senza
dubbio attori. L’attore assume su di sé un personaggio, un demone, mentre il
performer mette in scena la propria persona come ontologia. Il teatro accende
dei fantasmi che appartengono a un’altra epoca, a un altro luogo. L’attore
viene cavalcato da presenze diverse, non
c’è, compie un sostanziale atto di assenza. Il performer, al contrario,
compie una affermazione autobiografica che trovo meno interessante, perché
stereotipata.
Qual è il suo spettatore ideale?
Il
problema è la cultura come filtro, come barriera. La condizione migliore trovo
che sia l’abbandono. È ciò che cerco di
fare anch’io quando vedo uno spettacolo, ascolto una musica o leggo un libro.
Da molti è considerato
un maestro. In cosa è stato frainteso?
Chi mi chiama maestro mi ha equivocato: di maestro ce
n’era solo uno, in Galilea. Hanno travisato il mio lavoro quelli che lo
ritengono provocatorio: il mio è un teatro mentale, che produce idee. Un altro
grande fraintendimento è che il mio sia un teatro visivo, di immagini. Le uso,
ma esse non sono la cosa, non lo sono
mai stata.
A proposito di distorsioni:
Sul concetto di volto nel Figlio di Dio
ha fatto scandalo, a Milano come a Parigi. Ha avuto reazioni analoghe, in altri
Paesi?
Sì. È un fenomeno che dal punto di vista artistico non mi
riguarda. Sul piano politico e umano, invece, quella violenza mi ha decisamente
impressionato. È una vicenda superficiale, dunque poco interessante, manovrata
da gruppi di estrema destra: non credo valga la pena farne un’analisi.
In occasione del
progetto bolognese è tornato all’Accademia di Belle Arti, dove da giovane ha
studiato. In che modo è cambiato oggi il suo sguardo su quello spazio?
Sono andato in quel luogo della memoria trovandolo
completamente diverso: all’epoca era sporco, scuro, brutale. Attorno alle
sculture c’erano molti graffiti politici: ho frequentato l’Accademia negli anni
dopo il Settantasette, periodo “politicamente denso” e, in questa specifica
accezione, per me insignificante.
Perché ha messo in
scena Giulio Cesare. Pezzi staccati
nell’Aula Magna dell’Accademia?
Perché è uno spazio abitato da sculture, letteralmente consono a Giulio Cesare: in quel luogo c’è la stessa materia che Shakespeare
ha trattato, la classicità. Il mio Giulio
Cesare mostra l’elemento organico della voce, l’aspetto mortifero del
linguaggio. Ritornare a una letterarietà funziona per contrappunto: è stato
interessante mettere in mezzo alle statue il corpo rovesciato dell’attore.
Quando la sonda entra nella laringe si vede la carne palpitante, come se ci si
trovasse all’interno di una scultura.
---
Recensione di The Decision di Masque Teatro, p. 72:
Il Brecht "rovente" di Masque Teatro
THE DECISION, liberamente ispirato a La linea di condotta di Bertolt Brecht. Ideazione
e regia di Lorenzo Bazzocchi. Scene
di Lorenzo Bazzocchi, Catia Gatelli,
Eleonora Sedioli. Con Matteo
Ramon Arevalos, Lorenzo Bazzocchi, Catia Gatelli, Giacomo Piermatti, Eleonora
Sedioli. Prod. Masque teatro, FORLÌ
- Mood indigo, BOLOGNA.
Se non appartenesse a tutt’altro ambiente teatrale, questo
lavoro potrebbe intitolarsi Ceneri di
Brecht, come lo spettacolo dell’Odin Teatret del 1980: The Decision di Masque teatro dà fuoco al primo dramma didattico di Bertolt Brecht, è una performance rovente,
contro tutto e tutti. Contro la volontà dello stesso autore, in un certo senso:
Brecht, dopo la prima berlinese del 1930, ne vietò ulteriori messe in scena. Contro
l’immagine: l’intento iconoclasta si manifesta, ad esempio, in un corroso
ritratto di Mao che transita nel semibuio o in una statua dalle fattezze
neoclassiche crollata in proscenio (come non pensare allo sguardo sulle rovine
dell’Angelus Novus dell’amico Walter
Benjamin?). Contro il (o quantomeno apertamente indifferente al) pubblico: non
fosse stato chiaro in scena, nell’incontro post-spettacolo il regista ribadisce
con forza l’aspirazione a un teatro che possa vivere come pura creazione,
indipendente da qualunque sguardo esterno. La prima impressione è quella di un
esercizio solipsistico, di arida cupezza. Nei giorni a seguire, invece, affiorano
due elementi di valore. Il primo è il rigore e la coerenza con cui Masque
teatro ha affrontato questo testo di letteratura teatrale (come in passato aveva
fatto con Pentesilea di Kleist o Eva Futura di Villiers de
L’Isle-Adam), evitando con ostinazione qualsiasi relazione esplicita tra le
figure e ogni forma di narrazione. Il secondo sta nell’avere incarnato, per lampi,
alcuni apici del Novecento: la Supermarionetta di Craig, il mimo corporeo di
Decroux, i siparietti brechtiani, il Costruttivismo di Naum Gabo e ancor più il
Suprematismo di Kazimir Malevič. Non è poco, in uno spettacolo solo.
Michele
Pascarella
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Recensione di Maestro Eckhart di Alessandro Berti, p. 72:
Berti incontra Eckhart
MAESTRO ECKHART, drammaturgia, traduzione e regia di
Alessandro Berti. Costumi di Nicoletta Di Gaetano. Con Alessandro Berti e Angela
Caterina. Prod. Casavuota, BOLOGNA - I Teatri del Sacro, ROMA.
Ad averne il
coraggio, la recensione di questo spettacolo dovrebbe essere costituita da una
colonna vuota: duemiladuecento battute di spazi bianchi. E non perché non ci
sia nulla da dire, o da scrivere, sul nuovo lavoro di Alessandro Berti, regista,
attore e drammaturgo dal percorso eccentrico e sobrio: dopo aver
fondato nel 1995 con Michela Lucenti L’Impasto Comunità Teatrale e aver diretto
progetti legati al disagio mentale, da qualche anno è approdato all’ascolto rigoroso,
attraverso lo strumento-teatro, di voci della spiritualità cristiana. Uno degli esiti di questo attraversamento è Maestro Eckhart. Lo spettacolo dà voce e corpo a tre sermoni scritti dal misterioso
teologo e mistico medievale tedesco, fedelmente ritradotti da Alessandro
Berti e da lui messi in scena con rigore e asciuttezza. Lo spettacolo è una
sapiente mescolanza di elementi diversi: la recitazione colloquiale, “bassa”, e
un canto in dialetto reggiano incarnano testi di cristallina spiritualità mentre
una danza minimale e silenziosa vivifica il corpo, in fitto dialogo con una
pesante tonaca medievale, a suggerire nascite e rinascite. La scena sgombra
rimanda al nome del progetto teatrale che l’artista ha fondato “per poter
parlare”: Casavuota. Ecco perché sarebbe opportuno uno spazio bianco per raccontare
Maestro Eckhart, spettacolo-luogo che si fa cavo per conquistare
semplicità, per guadagnare trasparenza. Aristotele ci ricorda che
«peripezia è il volgere delle cose fatte nel loro contrario»: Maestro Eckhart accerchia un vuoto,
apparente e sostanziale, che contiene in sé una grande abbondanza.
Michele Pascarella
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Recensione di Suite Michelangelo di Città di Ebla, pp. 72-73:
Michelangelo racchiuso in un bozzolo-scultura
SUITE MICHELANGELO, di Claudio Angelini ed Elisa Gandini. Regia e luci di Claudio Angelici. Scene e costumi di Elisa
Gandini. Musiche di Dimitri Šostakovič.
Con Valentina Brevetti, Elisa Gandini, Riccardo Fioratti (baritono), Shizuka Salvemini (pianoforte). Prod. Città di Ebla, FORLÌ - Sagra
Musicale Malatestiana, RIMINI.
L’inizio è pieno di promesse, propriamente “divertente”:
termine che nell’etimologia rimanda al volgere altrove, al variare
un’abitudine. In questo caso si tratta di togliersi le scarpe ed entrare, pochi
e silenziosi, in un bozzolo bianco, dentro a un’algida, opalescente Wunderkammer
(titolo scelto da Città di Ebla, qualche anno fa, per un’altra “azione scenica
al servizio di un vedere”). Seduti su scalini ricoperti da teli bianchi, ci si
trova di fronte un pianoforte a coda, una pianista e un baritono. Il candido vestito
di lei eccede le quotidiane misure debordando nello spazio, amalgamandosi alle
stoffe bianchissime che ricoprono il pavimento, il soffitto e le pareti: pare di
trovarsi dentro a «un’unica grande pelle, che tutto contiene e trasforma», un
involucro latteo nel quale sia i performer che il pubblico non sono che
evanescenti, provvisorie escrescenze: meno che individui, non ancora (o non
più) soggetti. Fare esperienza di questo “luogo in cui scomparire” è l’elemento
più significativo di Suite Michelangelo,
allestimento scenico di undici brevi componimenti poetici di Michelangelo Buonarroti musicati
dal sovietico Dmitrij
Šostakovič nel 1974, anno prima della sua morte (Suite su versi di Michelangelo Buonarroti, op.
145). Nelle sculture, si sa, il celeberrimo artista rinascimentale si
prefiggeva di «liberare la forma» (il soggetto imprigionato nel blocco di marmo),
sottraendo tutto il superfluo: fare arte «per forza di levare». Lo
spazio drammaturgicamente attivo dell’ascetico, glaciale Suite Michelangelo contiene ciò che siamo: qualche cosa di effimero.
E piccolo. E fragile.
Michele Pascarella
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Recensione di Stava la madre di Angela Dematté, p. 77:
Sotto la croce l’ombra
di Pasolini
STAVA LA MADRE, di Angela Demattè. Regia di Sandro Mabellini. Con Angela Demattè,
Giulia Zeetti. Musiche di Antonia Gozzi e Ambrogio Sparagna. Prod. Beat 72, ROMA.
Che lo voglia o no, il primo merito di Stava la madre è ricordarci il rapporto paradossale
fra il nuovo teatro italiano e Pier Paolo Pasolini: ignorato fino alla morte (si
ricordi l’indifferenza verso la sua prima tragedia Pilade, nel 1967, o il fallimento della sua regia di Orgia, l’anno seguente), da fine anni
Settanta la sua figura e la sua opera, drammatica e non, sono oggetto di una
crescente, forsennata attenzione. Alcune espressioni di ciò: il lavoro di
Sandro Lombardi e Virgilio Sieni ideato nel 2009 a partire dal poema Le ceneri di Gramsci, L’ospite dei Motus, ‘Na specie de cadavere lunghissimo con Fabrizio Gifuni, La vergogna di Danio Manfredini, L’estate. Fine del Teatro delle Ariette
e il Progetto Petrolio curato da
Mario Martone. L’elenco potrebbe continuare a lungo. In questa temperie si
colloca lo stratificato spettacolo di Angela Demattè e Sandro
Mabellini, citando a piene mani (o meglio: rimettendo in scena, attualizzando)
il mediometraggio La ricotta del 1963.
Stava la madre ne coglie temi,
stilemi e poetica, ne fa risaltare le luminose contrapposizioni: alto e basso,
rozzo e sublime, colto e consumistico. Lo Stabat
mater di Jacopone da Todi attraversa i telefoni cellulari delle
protagoniste, le canzoni popolari si intrecciano a sonorità sintetiche live, i piedi di un Cristo crocifisso
incombono sulle attrici che passano senza posa, con magistrali micro variazioni
del corpo-voce, dall’esilarante al tragico. Stava
la madre mostra tre donne chiamate a interpretare le tre Marie sotto la
croce in un film americano e la loro fragile, testarda, beckettiana attesa.
Anche in questo risuona Pasolini, che nel Manifesto per un nuovo teatro auspicava la “mancanza quasi totale dell'azione scenica” e ricordava che “le idee […]
sono i reali personaggi di questo teatro”. Chapeau.
Michele Pascarella
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Exit - p. 99:
Mandiaye N’Diaye, il griot-Padre
Ubu del Teatro delle Albe
“La prima volta che mi sono sembrato un attore è
stato quando ho incontrato Marco Martinelli e Gigio Dadina, perché quel giorno
ho mentito”: Mandiaye N’Diaye raccontava così il suo incontro con il teatro,
avvenuto nel 1989. Spiega Martinelli: “Dovevamo trovare tre giovani senegalesi: si trattava di
un’emergenza, i compagni africani con i quali avevamo costruito il nostro primo
spettacolo meticcio, Ruh. Romagna più Africa uguale, ci avevano
lasciato dall’oggi al domani, pochi giorni dopo avremmo recitato all’ITC di
Bologna, bisognava pensare in fretta a una sostituzione”. Così Mandiaye, in Italia da un anno e costretto a un lavoro
da venditore ambulante nella riviera romagnola del quale era ovviamente
scontento, si inventò un passato da teatrante. Da allora, per oltre due decenni,
Mandiaye N’Diaye ha messo in vita più di ogni altro il “meticciato teatrale”
delle Albe, protagonista di molti spettacoli “afro-romagnoli” tra i quali Lunga vita all’albero (1990), Nessuno può coprire l’ombra (1991), Vita e conversione di Cheikh Ibrahim Fall
(2000) e Sogno di una notte di mezza
estate (2002). In quel fertile periodo i lavori più memorabili sono forse I Polacchi (1998), spettacolo patafisico
da Alfred Jarry in cui Mandiaye è un Padre Ubu grottesco che sproloquia in
italiano, wolof e dialetto romagnolo e Griot
Fulêr (1993), scritto assieme a Luigi Dadina e debuttato in Senegal, al
centro del quale stanno due fiabe tradizionali, una senegalese e una romagnola,
in cui si narra di un medesimo “maleficio dell’orma tagliata”. Negli anni si
rafforza in lui la necessità di indagare le relazioni fra l’arte teatrale e la
religione animista dei suoi antenati. Così, nel 2006, fonda a Diol Kadd, suo
villaggio in Senegal, il Takku Ligey Théâtre, nome che in wolof significa
“darsi da fare assieme”. Su questa feconda esperienza si vedano i bei volumi Takku
Ligey: un cortile nella savana di Linda Pasina (Titivillus, 2011)
e Passar la vita a Diol Kadd di Gianni Celati (Feltrinelli, 2011). Mandiaye N’Diaye è morto l’8 giugno
2014. Tre giorni dopo sarebbe dovuto arrivare in Italia per presentare il suo più
recente spettacolo, Opera lamb. Per
concludere questo breve ricordo, un piccolo passo indietro. Nel 1990 Mandiaye ha
messo in scena, unico interprete, la fiaba senegalese Le due calebasse. L’attore terminava questo divertente racconto sussurrando
con un largo sorriso: “Chi sente per primo questo profumo, va in
Paradiso”. Poi inspirava forte, con le sue larghe narici africane. Buio.
Michele Pascarella
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Biblioteca - p. 109:
Il Teatro delle Albe alla ricerca dell'utopia
Marco Martinelli e
Ermanna Montanari
Primavera eretica. Scritti e interviste: 1983-2013
Corazzano (Pi), Titivillus, 2014, pagg. 336, euro 22
Quando si dice: una foto azzeccata. Quella in copertina
è una scena di Perhindérion: bambini-scheletrini
che ballano il liscio. In essi si imbattevano gli spettatori-pellegrini del
“trittico peregrinante”, nel loro vagare dentro e attorno il Teatro Rasi di
Ravenna. L’immagine di Silvia Lelli suggerisce una delle possibili chiavi di
lettura dei molti testi raccolti in questo libro (alcuni piuttosto noti, altri
decisamente rari): un
commosso e commovente resoconto dell’indispensabile (ri)fondazione di un luogo
da cui parlare. Perhindérion metteva
“in vita” un visionario abbattimento della quarta parete, inscrivendosi nell’urgenza
di scompaginare la relazione spettacolo-spazio teatrale-spettatore che è all’origine,
come è noto, del Novecento teatrale. Di numerosi altri fertili sovvertimenti si
dà conto in questo volume: vale ricordare almeno la decisione “di convertire
l’ambientazione notturna e nebbiosa dei Polacchi
al pieno sole africano” e l’utopico progetto di “far lavorare assieme, in un
unico spettacolo, ragazzi di Scampia e ragazzi del centro di Napoli e ragazzi
rom […] per realizzare un vero arrevuoto,
un sotto-sopra, uno scardinamento”. Ciascuno dei sette capitoli in cui è suddiviso Primavera eretica è chiuso da una
postfazione di Massimo Marino: sette finestre attraverso cui sbirciare e
problematizzare la “vita in atto” di un teatro “solido come un monumento,
fragile e in movimento come i suoi diversi protagonisti”. Non è poca cosa, per
un libro solo.
Michele Pascarella
Hystrio 2.2014:
Recensione di Dialogo degli schiavi di Claudia Castellucci | Socìetas Raffaello Sanzio, p. 66:
Interrogare il mondo per significare la realtà
DIALOGO DEGLI SCHIAVI, ballata scritta e interpretata da
Claudia Castellucci. Arrangiamenti musicali: Scott Gibbons. Prod. Socìetas Raffaello Sanzio, CESENA.
Viene in mente Eleonora Duse. E non per il famoso
“dolorismo”, o per la forsennata biografia, ma per il suo aver costruito negli
anni un “repertorio-canzoniere”, o “dramma continuato”, mettendo in
scena una serie di opere in sé compiute e autonome, ma che possono
legittimamente anche essere considerate le diverse fasi di un medesimo progetto,
i molti capitoli di un unico grande romanzo. È esattamente ciò che fa Claudia
Castellucci con Dialogo degli schiavi: aggiungere
una tessera a un personalissimo mosaico composto di testi autografi, che sporadicamente recita, tutti facenti
parte del ciclo Il Regno profondo. Didatta e autrice di opere
drammatiche e teoriche (da molto tempo sta lavorando a un “manuale di tecnica drammatica secondo il modo
di una scuola”), Claudia Castellucci canta ed esegue in una sorta di “recitare
intonato” una lunga ballata, intrecciando la propria voce, limpida e tagliente
come una scheggia di cristallo, alle musiche di Scott Gibbons. Il musicista e
sperimentatore elettroacustico americano, che da anni collabora con la Socìetas
Raffaello Sanzio, per l’occasione mette in campo una varietà di suoni e ritmi
ipnotici e accattivanti, ad alleggerire un testo piuttosto criptico, che nomina
le cose del mondo e si interroga sulla possibilità di significare davvero il
reale. Lo spettacolo non manca di una certa sottile ironia, sia nel senso
comune di fare di tanto in tanto sorridere, sia in quello socratico di presa di
distanza da ciò di cui si occupa. È un lavoro ricco di riferimenti
stratificati, che nulla
concede alla facile spettacolarità: il volto coperto da lunghi fili d’erba e completamente
vestita di nero (con cappello a tesa larga, mantello e stivali), Claudia
Castellucci si muove a piccoli balzi su un palco vuoto, illuminato dal basso da
luci bianche e fisse. Ricorda una quacchera: nell’aspetto, nell’austero rigore morale
che emana, nell’intenzione apertamente didascalica. Questo è lo scomodo merito
di Dialogo degli schiavi, e della sua
autrice.
Michele Pascarella
Hystrio 1.2014:
Recensione di Tifone di Chiara Guidi | Socìetas Raffaello Sanzio, p. 68:
L'epica del naufragio, la Guidi racconta Conrad
TIFONE, liberamente tratto da Joseph Conrad. Adattamento e
regia di Chiara Guidi. Musiche originali di Fabrizio Ottaviucci. Con Chiara
Guidi e Fabrizio Ottaviucci. Prod. Socìetas Raffaello Sanzio, CESENA.
Al
centro della scena, in mezzo ai due interpreti, c’è una grande bilancia
meccanica, a ricordare un timone, o forse una bussola: strumenti utili ad attraversare
la vicenda marinara di Tifone. È la
storia di MacWhirr, al comando della nave a vapore Nan-Shan. Con un carico di cinesi stipati nella stiva, con
braccia e gambe all’aria, il capitano rifiuta di cambiare rotta per evitare un
tifone tropicale: «Il centro del tifone dov’è?», si chiede testardo. Il lungo
racconto che Joseph Conrad inizia a scrivere nel 1899 è qui adattato, trasposto
sul pentagramma ed eseguito con precisa maestria da Chiara Guidi, che con la
voce fa capriole, salti e variazioni da capogiro, e dal pianoforte di Fabrizio
Ottaviucci, in cui echeggiano i molto amati John Cage e Giacinto Scelsi. In Tifone della Socìetas Raffaello Sanzio la tecnica vocale millimetrica, "molecolare", è messa al servizio di un "salto sul posto", il testo viene usato
come un trampolino per rimandare al puro accadere: una complessa, multiforme architettura
del qui e ora. È un po’ come se sui pentagrammi di Guidi e Ottaviucci le note e
le parole apparissero un attimo prima di essere eseguite e scomparissero subito
dopo, in una costruzione fragilissima, pur nella grande solidità, istantanea
nella durata. Lo
spettatore, mentre viene trasportato sulla scalcinata nave a vapore di MacWhirr, "si
guarda guardare" il preciso presente. E sperimenta la soddisfazione antica di
ascoltare una storia appassionante, avventurosa, a suo modo "epica". Tifone è un affascinante, prezioso tentativo di recupero della pura
oralità in scena: una sorta di “teatro dell’ascolto”, che starebbe molto bene
trasmesso per via radiofonica, o che sarebbe interessante ascoltare bendati. Pura
materia sonora, che passa e va.
Michele Pascarella